L’affare dell’oasi di Jemna: questione contadina e rivoluzione democratica in Tunisia

   
Aziz Krichen عزيز كريشان
Übersetzt von  Milena Rampoldi ميلينا رامبولدي میلنا رامپلدی Милена Рампольди
Herausgegeben von  Fausto Giudice Фаусто Джудиче فاوستو جيوديشي

 

Negli ultimi tempi non si fa che parlare dell’affare di Jemna, trasformatosi nella nuova mela della discordia. Le discussioni sono violente, cariche di urla e di ira. Nei media controllati si espongono gli argomenti più inverosimili per denunciare l’occupazione delle terre da parte dei contadini. Queste argomentazioni evocano più i fantasmi dei propri autori che la realtà dei fatti.

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Non perseguo lo  scopo di aggiungere la mia voce a queste urla, ma semplicemente presentare dati essenziali che invece contribuiscano a concentrare nuovamente il dibattito sulle questioni di fondo che superano di molto il caso specifico di questo palmeto della Tunisia meridionale.

 

 

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Jemna è un’oasi ubicata nel governatorato di Kébili, nel sud della Tunisia. Dopo essere stata un demanio coloniale, il palmeto fu nazionalizzato nel 1964, in applicazione della legge di decolonizzazione agraria. Gli abitanti dell’oasi negoziano con il governatorato per riacquistare le terre, partendo dal presupposto del diritto alla terra di cui erano stati privati. Firmano un compromesso di vendita e mediante una colletta riescono ad anticipare la metà dell’importo di 80.000 DT richiesto. In seguito l’autorità pubblica ripudia il contratto e trasforma il denaro già percepito in azioni fasulle di società semi-statali. Poi il palmeto viene affidato ad una filiale dell’azienda STIL, specializzata nella produzione e nell’esportazione di datteri. Nel 2002, in seguito al fallimento di questa filiale, le terre per 15 anni vengono affittate a dei promotori privati, vicini alla famiglia Trabelsi. Il 12 gennaio del 2011, due giorni prima della fuga di Ben Ali, i contadini di Jemna iniziarono ad occupare le terre. Attualmente il governo vuole riprenderne il possesso. Vedi anche  L’oasi di Jemna: una storia di resistenza, di  Habib Ayeb, tradotto da Patrizia Mancini

 

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In primo luogo ci si deve porre la questione relativa allo statuto delle terre demaniali, di cui Jemna non è che una minuscola parcella. Le proprietà statali comprendono oltre 800.000 ettari e una buona parte delle terre più fertili del paese. Prima dell’indipendenza (1956) queste terre erano in mano ai coloni, francesi o affini. A partire dal 1964, con la legge di decolonizzazione agraria, passarono nelle mani dello stato e furono gestite dall’OTD (Office des terres domaniales,Ufficio delle terre demaniali), sotto la tutela diretta del Ministero dell’Agricoltura.

Il problema che si pone riguarda il motivo per qui si è istituita questa forma: perché lo stato si è tenuto le terre? Fa parte della vocazione dello stato possedere terre agricole e sfruttarle? Fa parte della vocazione dello stato trasformarsi in latifondista e colono? Il colonizzatore straniero aveva privato i contadini di queste terre con la forza. Il recupero di queste terre era una delle rivendicazioni principali del movimento di liberazione nazionale. Non appena lo stato aveva recuperato le terre, non avrebbe dovuto restituirle ai loro proprietari originali?

In quel momento l’argomentazione ufficiale, ripetuta anche da tutti i governi successivi, consisteva nel dire che i contadini tunisini erano troppo arretrati tecnicamente e troppo poveri per sfruttare in modo efficace e fruttuoso queste terre. Mentre la gestione statale potrebbe mantenere e migliorare i livelli produttivi, creare valore e utilizzare le eccedenze liberate per finanziare il resto dell’economia.

Il ragionamento sarebbe stato sensato se fosse stato confermato nella pratica, cosa che invece non avviene. Ma anche se si mette tra parentesi il breve periodo della collettivizzazione forzata (1965-1969) che provocò un vero e proprio crollo della produzione agricola, il risultato dell’uso pubblico delle terre demaniali fu sempre deficitario. E non lo dico per dire. I dati dell’OTD infatti vengono pubblicati ogni anno. Dal 1970 non vediamo un solo esercizio eccedentario. E questo scandalo dura da mezzo secolo. L’OTD produce un deficit cronico in aumento di esercizio in esercizio.

Invece di sviluppare un’agricoltura moderna, efficiente e redditizia, lo sfruttamento delle terre demaniali da parte dell’OTD ha solo prodotto un deficit, ma invece di alleviare il budget statale ha solo appesantito ulteriormente l’onere di bilancio. Ma la cosa ancora più grave, ha generato un sistema organizzato di corruzione, presente a tutti i livelli della gerarchia burocratica messa in piedi.

Questa corruzione tentacolare non è il risultato involontario della gestione pubblica della terra, ma la sua conseguenza necessaria,  avvenuta all’ombra di un sistema politico – in particolare a partire dall’ascesa al potere di Ben Ali– che si fece complice e protettore di un’oligarchia affaristica e mafiosa, i cui interessi finirono per prevalere sugli interessi dello stato e del paese.

Senza dubbio è questa verità scomoda a spiegare la virulenza di coloro che denunciano la ripresa della fattoria di Jemna da parte degli abitanti dell’oasi. Da quando la fattoria ha cambiato mani, è diventata subito beneficiaria e la sua gestione trasparente: questo crea un precedente insopportabile…

 

 

Cappuccino di omaggio a Jemna, di Mahdi, di El Hamma, via facebook

II

A partire dal 2011, il fenomeno dell’occupazione contadina delle terre demaniali non si è limitato quest’oasi nel sud del paese, ha toccato decine di altre zone agricole, ripartite su tutto il territorio. Ci si deve chiedere il motivo per cui questo fenomeno riguardava solo le terre demaniali e mai la proprietà privata, indipendentemente dalla grandezza della stessa. E questo a sua volta dimostra che non ci troviamo dinnanzi a delle esazioni anarchiche di ripartitori che attaccano la grande proprietà fondiaria in quanto tale, ma dinnanzi ad un movimento di riappropriazione orientato unicamente al demanio statale.[1]

Molti pensavano che la rivoluzione che ha detronizzato Ben Ali fosse solo politica e che si limitasse ad un semplice cambio dell’equipe dei dirigenti dello stato. Soprattutto sembra che la maggior parte dei partiti della vecchia opposizione lo credesse. Ma si sbagliavano di grosso. Le rivoluzioni vere e proprie sono politiche, ma sono anche e soprattutto economiche e sociali, volte ad eliminare i privilegi illegittimi e anti-produttivi di una minoranza per instaurare una riorganizzazione completa dell’economia e della società, rispondere alle esigenze della maggioranza e promuovere lo sviluppo e la ricchezza della nazione.

L’insurrezione tunisina era sostenuta da quattro gruppi sociali principali: il mondo rurale, la popolazione delle periferie, il popolo dei salariati e le classi medie.[2] Partecipando alla rivolta, ognuno di questi gruppi esprimeva rivendicazioni specifiche. E il fatto che in quel momento non ci fosse nessuna formazione politica per prenderle in considerazione ed articolarle in un programma coerente, non significa che queste rivendicazioni non ci fossero.

Per i contadini, condannati dall’antico regime a vivere in condizioni di estrema incertezza, i motivi di insoddisfazione erano numerosi e giustificati. E uno di questi motivi – fra i più importanti – riguardava l’accesso alla terra e in particolare il recupero delle terre di cui erano stati privati dalla colonizzazione e che lo stato nazionale, che non faceva che perpetuare questa spoliazione, invece di restituirle ai loro proprietari originari, si era tenuto per sé.

Il diritto alla terra è un problema ricorrente in tutta la nostra storia moderna. Questo problema si poneva sempre in termini di scontro col potere politico. Prima del protettorato, sotto il regime dei bey, l’esclusione era stata spinta fino all’ultimo: gli agricoltori letteralmente non potevano essere i proprietari delle terre che coltivavano. Gli attributi ufficiali dei bey  erano rivelatori in questo senso. Quando ascendeva al trono, ogni sovrano si trasformava ipso facto nel “possessore del Regno di Tunisi.” Il paese intero, sia la terra che i suoi abitanti, faceva parte del suo patrimonio personale.

Il paese era suo e lo poteva sfruttare a suo piacimento. Per stabilire la sua fortuna e allo stesso tempo fornire un fondamento sociologico al proprio dominio, faceva sfruttare un determinato numero di terreni agricoli a suo vantaggio. Quelli restanti invece li distribuiva ai vassalli per mantenere la loro lealtà nei suoi confronti. Queste concessioni (iqtaâ) non erano mai definitive. Quello che il bey concedeva un giorno, poteva riprenderselo il giorno dopo per darlo ad altri pretendenti.

I contadini non erano coinvolti da questi avvenimenti. Rimanevano semplicemente legati al loro territorio e si ritrovavano semplicemente con dei signori diversi, a seconda della strategia politica o del capriccio del bey. Anche se lavoravano la terra per generazioni, non spettava loro alcun diritto di possesso su di essa.

In queste condizioni in cui il monarca era il proprietario diretto della terra e dei suoi abitanti l’appropriazione privata non poteva nascere e svilupparsi che al margine, negli interstizi del sistema. A sua volta questa imprecisione giuridica facilitò moltissimo il lavoro di spoliazione dei sostenitori della colonizzazione agraria. Visto che gli autoctoni non avevano titoli di proprietà per far valere i propri diritti, la potenza coloniale riteneva trovarsi dinnanzi ad una situazione di possesso vacante, che lo autorizzò a distribuire la terra ai propri cittadini. Grazie a questo gioco di prestigio molti coloni ottenero ampi appezzamenti di terra.

Dunque agendo in questo modo la Francia si comportava esattamente come il bey: il paese le apparteneva e  poteva dunque ripartirne le spoglie come voleva. Nel 1964, con la nazionalizzazione delle terre coloniali, Bourguiba ha poi riprodotto questo comportamento patrimoniale. Anche se lui, a differenza della maggior parte degli antichi bey, non lo fece per arricchire se stesso o il suo entourage. Non voleva la terra per se stesso o per i suoi, ma per lo Stato in una prospettiva autoritaria di modernizzazione dell’economia e della società. Il suo dispotismo non era interessato, ma “illuminato”. Ma alla fine rimaneva dispotismo: un regime in cui il potere politico è tutto e ove il popolo non vale assolutamente nulla.

Ricordo questi fatti storici per fare luce sul dibattito attuale, mettendo in rilievo la differenza principale tra dittatura e democrazia. Avendola vissuta sulla nostra pelle, tutti sappiamo che cosa significa la dittatura. Ma non sembra che i partiti del governo attuale conoscano realmente il significato della democrazia. La democrazia non significa la sparizione del ruolo dello stato, ma richiede la trasformazione di questo ruolo, in  modo che il governo si ponga al servizio della società, invece di imporle il proprio assolutismo.

Non si può concepire la democrazia senza l’autonomia del corpo sociale. Questa autonomia innanzitutto passa per la sua indipendenza economica che presuppone l’accesso della maggioranza al diritto di proprietà. Non esiste democrazia senza società civile, se i cittadini che la compongono ‒ o almeno un numero significativo di loro ‒ non sono padroni delle loro condizioni di esistenza materiale. Infatti la cittadinanza non può mai basarsi sull’esclusione.

In una democrazia lo stato non ha il diritto di porsi tra la terra e il contadino che la coltiva; non ha il diritto di proibire al contadino di essere proprietario della terra. In una democrazia lo stato non ha il diritto di possedere le terre e di monopolizzare la maggior parte della superficie agricola fertile di un paese, indipendentemente dai motivi giuridici o ideologici invocati.

In una democrazia, quando le leggi in vigore impediscono ai contadini di accedere alla terra ‒questo avviene sempre nei periodi di transizione visto che queste leggi sono state emesse dal regime precedente ‒ devono essere modificate e non devono essere utilizzate per continuare a opprimere coloro che le criticano. I contadini che occupano le terre dello stato non violano il diritto, lo stabiliscono.

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Omaggio a Jemna dell’artista siriano Yasser Ahmad

III

La Tunisia sta vivendo una crisi acuta che coinvolge tutti i settori della nostra vita collettiva. Questa crisi esprime il fallimento di un modello di sviluppo, in primo luogo del settore agricolo. Se vi riflettiamo, ci accorgiamo infatti che la maggior parte delle nostre difficoltà economiche e sociali hanno a che vedere con la pauperizzazione e la marginalizzazione del mondo rurale, causate dalla politica agraria ufficiale.

  • Innanzitutto questa crisi si manifesta nell’insufficienza della produzione agricola in sé, in particolare nel settore dei cereali che rappresentano la base dell’alimentazione popolare (pane, semolino, paste, farina, ecc.). Il nostro consumo annuale di prodotti cereali raggiunge i 30 milioni di quintali. E il raccolto produce solo fra 10 e 20 millionii. Anno dopo anno, il nostro deficit  ammonta a 1-2 terzi  del fabbisogno. Siamo lontanissimi dalla sovranità alimentare che rappresenta la prima condizione dell’indipendenza di un paese. I risultati negativi non sono da far risalire ad un’unica causa (pluviometria o qualità delle terre, o metodi di coltivazione o monopolio statale sulle terre migliori, ecc.), ma a molte cause diversificate. Tra queste una causa principale che aggrava l’impatto negativo di tutte le altre è la politica dei prezzi. Dal 1956 lo stato fissa i prezzi di vendita del grano e dell’orzo. Se il prezzo è basso, l’agricoltura di sussistenza diventa poco redditizia, e mantiene i contadini che coltivano le terre in condizioni molto precarie. Se la pioggia dipende dal cielo, da noi i prezzi dipendono dal governo. Perché il governo mantiene il prezzo così basso? Per motivi di clientelismo politico. Infatti dal 1956 lo stato dà priorità al potere d’acquisto della popolazione urbana rispetto a quello della popolazione rurale. E dunque non è un caso che la ribellione del dicembre del 2010 inizialmente sia scoppiata nei governatorati ad impronta agricola.
  • In secondo luogo, la crisi si riflette nella proliferazione dell’economia parallela. La pauperizzazione continua del mondo contadino provoca un movimento costante di coloro che abbandonano la campagna per recarsi in città. Contrariamente a quanto vuol farci credere la propaganda ufficiale, questo esodo non rispecchia il fatto che l’economia urbana sia dinamica ed attraente, ma piuttosto l’incapacità dell’economia rurale di tenere i propri figli e di nutrirli. I contadini sradicati abbandonano le campagne, ma la città non li accoglie. La maggioranza di loro non trovano ne casa ne lavoro. Vivono nelle periferie che rapidamente si trasformano in ghetti insalubri e si dedicano a delle attività di sopravvivenza nelle varie sfere dell’economia parallela: commercio illegale, contrabbando transfrontaliero, traffico di sostanze illecite, ecc.

Al momento l’economia illegale rappresenta all’incirca il 50% del PIL tunisino. Inizialmente questo fenomeno sembrava essere una soluzione per le persone prive di risorse. Oggi invece costituisce una minaccia frontale per l’industria nazionale visto che la maggior parte dei prodotti commercializzati sul mercato parallelo provengono dall’estero (Cina, Italia, Turchia).

  • Le conseguenze della politica agricola statale si manifestano anche in un altro settore essenziale: quello dei salari pagati nel settore industriale e dei servizi, in particolare nell’amministrazione pubblica. Infatti la rimunerazione bassa del lavoro rurale permette di mantenere molto bassi anche i salari dell’economia non agricola. Per fare un esempio attuale: il salario minimo in Tunisia ammonta alla metà di quello marocchino e al 10% del salario minimo europeo.

La politica dei prezzi nell’economia rurale, in particolare per i cereali, ha una relazione diretta con la politica salariale nell’economia urbana. Con scopi clientelistici, si trattava di nutrire a basso costo il maggior numero possibile di lavoratori nelle imprese e nell’amministrazione pubblica, senza tener conto delle necessità o della razionalità economica. Le stesse cause producono gli stessi effetti: allo stesso modo in cui la politica dei prezzi ha distrutto lo sviluppo della nostra economia rurale, alla fine la politica dei salari ha distrutto il progresso della nostra economia urbana. In entrambi i settori, l’assenza di una retribuzione decente per i lavoratori ha condotto al disinteresse al lavoro. Dapertutto ha causato una riduzione della produttività e del rendimento e sono nate diverse pratiche di corruzione per compensare l’insufficienza dei redditi provenienti dai circuiti ufficiali di remunerazione.

  • Le conseguenze le ritroviamo anche al livello delle limitazioni delle attività non agricole prodotte dagli effetti cumulativi menzionati poc’anzi. Lo sviluppo del settore secondario (industria) e di quello terziario (servizi) presuppone l’esistenza di un’ampia domanda solvente (consumatori con un potere reale d’acquisto) e di un mercato interno abbastanza ampio da permettere economie di scala e da pemettere l’espansione e la crescita di gamma delle imprese.

La nostra base demografica è già ridotta : circa 12 milioni di abitanti. A causa del gran numero di disoccupati e della scarsa retribuzione dei contadini, delle persone emarginate nei quartieri periferici e della grande massa dei salariati (che tutti insieme superano l’80% della popolazione), la domanda di prodotti industriali e di servizi rimane necessariamente limitata a livello strutturale. Le nostre imprese competono per un mercato ristretto che impedisce alla maggioranza di esse di sviluppare delle prospettive di progresso tecnologico e di crescita sostenuta. Coloro che puntano sulle esportazioni al fine di compensare la limitazione degli sbocchi domestici si ritrovano ad affrontare altre difficoltà. Alcune forse hanno successo, essenzialmente come subappaltatrici, ma tutte alla fine si rendono conto che è quasi impossibile proiettarsi durevolmente verso l’estero senza disporre di una solida base di accumulazione a livello nazionale.

  • Questi malfunzionamenti del sistema economico hanno creato delle condizioni che favoriscono innanzitutto la nascita, e poi la crescita del nebuloso affarismo mafioso, i cui malfatti oggi si osservano in molti ambiti della nostra esistenza nazionale. Approfittando della  protezione del potere politico e della fragilità dei gruppi sociali -rurali, sottoproletariato dei quartieri periferici, salariati, piccoli e medi imprenditori – questa nebulosa si è progressivamente ramificata fino a trasformarsi in una vera e propria cancrena che ha infettato settori interi della società e le istituzioni principali: l’amministrazione centrale e locale, la giustizia, le dogane, i media, le banche pubbliche, ecc.

La malattia è apparsa negli anni settanta, all’ombra del governo Nouira, e ha poi raggiunto l’acme con Ben Ali, quando il clan Trabelsi ha assunto il comando. La ribellione del 2010-2011 non solo non ha sradicato il fenomeno, ma lo ha perturbato solo per un attimo, prima che la deriva riprendi, aggravando il caos economico e pervertendo la popolazione.

IV

Nelle sue strutture di base un sistema economico è  un congiunto di relazioni, un’ impalcatura, in cui sono uniti tutti i pezzi. Abbiamo visto come la politica agricola abbia prodotto un esodo rurale e il commercio parallelo e come abbia condotto ad una politica dai salari bassi. E inoltre abbiamo notato come tutti questi elementi collegati tra loro abbiano contribuito a bloccare lo sviluppo delle nostre imprese, aprendo la strada ad un’oligarchia di speculatori e di mafiosi.

Parlo di un’impalcatura. Si tratta nella fattispecie di un’impalcatura del tutto particolare, di una sorta di circolo vizioso. Ogni mancanza, ogni  errore di calcolo commesso in un punto del circolo si ripercuote in modo potenziato su tutti gli altri punti. Era contro questo sistema perverso che in realtà si è ribellato il popolo durante la rivoluzione. La caduta del regime che richiedevano i manifestanti perseguiva l’obiettivo di smantellare l’antica impalcatura e di sostituire un circolo vizioso con un circolo virtuoso. In quest’ottica, si comprende il carattere strategico della questione agraria, che è all’origine di tutto il resto. Eccolo il nodo di Gordio.

Il fondamento economico dell’antico regime si basava sulla pauperizzazione programmata della classe agricola. Il fondamento del regime democratico in costruzione deve essere una politica che, mediante la riaffermazione dei diritti dei contadini, riesca a trasformare il lavoro della coltivazione della terra in un lavoro produttivo e redditizio per la maggior parte degli agricoltori. Se si sbloccano le cose a questo livello, si ottengono i mezzi per lo sblocco progressivo di tutti gli altri livelli.

La questione agraria è il nucleo della rivoluzione democratica. Eliminando monopoli arbitrari – il monopolio statale sulle terre più fertili, il monopolio statale sulla definizione del prezzo dei cereali, ecc. – non solo si integra il mondo rurale nell’economia di mercato. Questa diviene possibile dandole la base demografica di cui ha bisogno per funzionare. Sviluppando la produzione agricola e migliorando i redditi dei contadini, ci si dota infatti di una leva fondamentale per promuovere l’incremento della produzione in tutti gli altri settori economici e il miglioramento del potere di acquisto degli altri gruppi sociali. La democrazia può esserci anche in un paese povero, ma non può mantenersi se la povertà di massa si perpetua.

La soluzione del problema agrario si dimostra dunque come un passaggio obbligato che non solo condiziona il superamento della crisi dell’antico modello economico, ma riesce anche a stabilizzare a lungo termine il nuovo sistema politico. Si devono superare delle difficoltà numerose e complesse. Soprattutto abbiamo insistito sulla questione delle terre demaniali e su quella della politica dei prezzi per la cerealicoltura. Ma ci sono molte altre sfide da affrontare.

Possiamo accennare, alla rinfusa, al problema delle risorse idriche, già menzionato, o a quello dei circuiti di distribuzione, ove sta in agguato una mafia di mediatori corrotti che imbrogliano sia i produttori rurali che i consumatori urbani e le cui reti attualmente controllano tutti i mercati all’ingrosso regionali. Ci sono anche gravi problemi sul versante dell’infrastruttura: trasporto terrestre e ferroviario insufficiente, poca capacità di immagazzinamento e di conservazione a freddo, pochi mezzi di trasporto adatti, ecc.

Si aggiunge il problema dell’estrema parcellazione della piccola proprietà, di fondamentale importanza nella prospettiva della restituzione delle terre demaniali. Infatti questa restituzione può contribuire alla riduzione del fenomeno o anche al suo aumento, nel caso in cui si abbia una distribuzione indiscriminata. Ci troviamo dinnanzi ad una situazione in cui si deve trovare il miglior equilibrio tra due imperativi non sempre facilmente conciliabili: quello della giustizia e quello dell’efficienza. Ovviamente solo un governo forte che gode di una forte legittimità popolare potrà imporre un tale arbitraggio.

Si tratta senza dubbio di un lavoro immenso che rimane da eseguire per rimettere in sesto il mondo rurale tunisino. Ci vogliono una strategia ben concepita, molta determinazione e pedagogia e soprattutto la piena mobilitazione dei principali attori. Riuscirà il potere attuale ad essere all’altezza delle circostanze? Vista la sua reazione iniziale all’affare di Jemna, è lecito dubitarne.

In verità ci troviamo dinnanzi a due possibili scenari: o si fa uno sforzo per ascoltare le richieste dei contadini o si rimane sordi alle loro richieste e ci si accanisce a voler mantenere lo status quo. Nel primo caso il paese si svilupperà in modo unitario, responsabile e disciplinato e con poco sforzo si consolideranno le basi materiali della democrazia. Nel secondo caso invece il paese si dividerà, la repressione aggraverà l’ anarchia e il disordine e si accumuleranno le perdite e i ritardi. Alla fine in entrambi i casi si avrà un cambiamento. Perché questo cambiamento si è introdotto nella profondità del corpo sociale e nulla e nessuno lo può arrestare. Le battaglie di retroguardia non impediranno che giri la ruota della storia. 

Notes

[1] Ugualmente, gGli atti di vandalismo contro i beni, registrati nella rivolta di dicembre 2010-gennaio 2011, non hanno mai colpito  ricchi per il fatto che fossero ricchi, ma unicamente perché facevano parte della cerchia di Ben Ali, la cui ricchezza proveniva da atti di estorsione e da privilegi che questa vicinanza permetteva.

[2] Aziz Krichen (2016), La promesse du Printemps, p. 388-416, edizioni Script, Tunisi, 2016.

 

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