Sul Mito della Purificazione con la Vergine: Questioni di Genere, AIDS ed Etnomedicina
African Journal of AIDS Research 2002, 1: 87-95
Sul Mito della Purificazione con la Vergine: Questioni di Genere, AIDS ed
Etnomedicina
Suzanne Leclerc-Madlala
Programma di Antropologia, Università di Natal, Durban, Sudafrica
Traduzione italiana: Dr. phil. Milena Rampoldi, ProMosaik e.V.
La credenza che l’HIV/AIDS possa venire curata facendo del sesso con delle vergini è stata identificata come possibile fattore alla base dello stupro di bambine e ragazzine in Sudafrica. Mentre per un certo periodo la diffusione di questo mito è stata identificata come questione di interesse delle comunità locali, ci sono stati recentemente dei tentativi volti a stabilire l’entità con cui tale credenza sta aggravando il già rilevato aumento di stupri infantili e di nuove infezioni da HIV a livello nazionale. Quest’articolo tenta di mostrare la logica sistematica sulla quale si basa l’idea della “purificazione con la vergine” come risposta terapeutica all’HIV/AIDS fra la popolazione che si identifica come zulu. Concentrandosi sulla ricerca etnografica in diversi insediamenti peri-urbani della provincia di KwaZulu-Natal, vengono esaminati gli aspetti chiave della conoscenza etnomedica associata ai concetti di “sporco” e di corpo femminile, insieme anche ai simboli dietro alle interpretazioni locali dell’HIV/AIDS. L’autrice afferma che, nelle questioni di stupro e AIDS, diviene centrale dedicare una maggiore attenzione a come le influenze modellano gli schemi culturali, al fine di una migliore comprensione delle connessioni credenza-comportamento.
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Introduzione
La questione dello stupro infantile in Sudafrica ha attirato negli ultimi anni l’attenzione di un vasto pubblico. Alla fine del 2001, i servizi dei media riguardo il brutale stupro di gruppo di una lattante vennero accolti da una forte richiesta popolare per porre fine al clima di relativa impunità con quale viene trattato lo stupro in quel Paese. Nel tentativo di affrontare ciò che era ampiamente percepito come un problema crescente, il Parlamento tenne una tre giorni di discussioni in merito; questo nel periodo precedente a un nuovo Decreto sugli abusi sessuali, atteso per il luglio del 2002. Se l’incremento degli abusi sessuali sui bambini sia il riflesso di un aumento della copertura mediatica del tema oppure un vero aumento di incidenza è argomento di accese discussioni ad ogni livello della società. Il Governo ha fatto un appello agli esperti di scienze sociali, ai ricercatori medici e ai criminologi affinché insieme portino avanti degli studi per intendere meglio questo problema. Un appello opportuno. Dalla metà degli anni ’90 in poi, i media statali sudafricani hanno fortemente incrementato la copertura di ogni tipo di abuso sessuale e violenza di genere.
Secondo uno studio di livello nazionale effettuato dall’Università del Sudafrica, vengono violentate ogni anno un milione di donne e bambine, che rappresenteranno solo una parte dei numeri totali riguardanti il problema stupri, dato che molte vittime non denunciano il fatto alle autorità (1).
Come parte di quella che viene considerata un’emergenza a livello nazionale, lo stupro di una giovane bambina ha provocato la più grande indignazione dell’opinione pubblica. A fine 2001, nel South African Medical Journal, apparse l’articolo di due medici che descrivevano gli schemi di lesioni e l’appropriato trattamento da riservarsi a bambine vittime di stupri. (Van As et al, 2001). A questo seguì un’intervista sul prestigioso The Lancet, a tema abusi infantili in Sudafrica; qui gli autori specularono riguardo il ruolo del “mito della vergine” come fattore scatenante tale crimine (Pitcher e Bowley, 2002). Diversi ricercatori sudafricani rapidamente risposero incentrando l’attenzione più sulla pervasiva violenza strutturale presente nella società contemporanea come risultato del brutale passato del Paese (2). Rachel Jewkes, la Direttrice della ricerca su genere e salute al Medical Research Council, affermò che “la radice del problema dello stupro infantile risiede sostanzialmente in questioni più consuetudinarie. Dovrebbe essere considerato come parte della serie di violenze sessuali ai danni di donne e ragazze (citato in Michaels, 2002).” Secondo gli studi della Jewkes e di altri, non c’è alcuna evidenza che il numero di stupri infantili stia aumentando in Sudafrica. Tali affermazioni hanno lasciato esterrefatti i membri della professione medica e dei servizi di protezione minorile, molti dei quali sostengono di non aver mai immaginato di dover avere a che fare con tali livelli di brutalità come in questi casi di stupro infantile diventati per loro una routine lavorativa (3). Nonostante non risulti disponibile un’evidenza statistica dell’incremento di tale crimine, è rimasta l’ampia percezione del problema come di un’emergenza nazionale. Nell’aprile del 2002, il Ministro dell’Istruzione sudafricano affermò che il Paese stava rapidamente acquisendo la fama di essere la capitale mondiale dello stupro infantile, come se fosse il solo tragicamente colpito dalla piaga degli abusi sui bambini (4).
Questo studio non è né un tentativo di verificare gli incrementi percepiti dei casi di abuso sessuale o stupro di bambini, né quello di spiegare questi crimini alla luce del contesto attuale in Sudafrica. Si focalizza piuttosto sul mito diffuso che un rapporto sessuale con una vergine sia un trattamento efficace contro l’AIDS. L’autrice afferma che la stessa iterazione di rifiuto psicologico, presente quando in Sudafrica si parla di AIDS, influisce anche su quanto si dice pubblicamente riguardo il mito della vergine. Quest’ultimo è stato minuziosamente esaminato solamente quando, negli anni scorsi, i media hanno dato spazio a dei casi di stupro infantile specialmente raccapriccianti e pure la stampa internazionale cominciava a interessarsi a tale questione sudafricana. Quanto segue è un’analisi di quelle che potrebbero essere considerate delle significative interpretazioni cognitive e metaforiche da cui è derivato il mito della purificazione con la vergine. Come tale, è un esercizio che implica contestazioni di visioni del mondo e la sfida di interpretare una cosmologia medica (africana e zulu) altamente radicata e sistemica, attraverso l’uso di simboli ed espressioni prese da una diversa, ma allo stesso modo integrata e sistemica, cosmologia biomedica occidentale. L’obiettivo del presente lavoro è gettar luce sulla natura di alcune credenze etnomediche che stanno alimentando e sostenendo tale mito. Quanto segue svela alcuni dei principali concetti e conoscenze condivise fra gli zulu riguardo i processi etnopatologici, i corpi femminili e la gestione della malattia. Siccome il mito della purificazione con la vergine è relativo all’AIDS, viene fornita una breve analisi di alcune pratiche comuni con cui le persone concettualizzano e vivono questa malattia relativamente “nuova”. Studi riguardo la sieropositività all’HIV fra le donne incinte alloggiate nelle cliniche prenatali di tutto il Paese riportano un 22,8% di infezioni al virus (Dipartimento della Salute del Sudafrica, 2001). Per quanto riguarda la provincia di KwaZulu-Natal, base di questa ricerca, il tasso di sieropositività all’HIV è stimato fra il 36% e il 38%. Si spera che, arrivando a una profonda delucidazione del perché un uomo possa cercare del sesso con una vergine nell’attuale contesto di una formidabile epidemia di AIDS, si possa contribuire a un maggior impegno contro il problema dello stupro infantile, affrontando in maniera più efficace sia questa questione che quella dell’AIDS.
Metodologia
Lo sbroglio della complessa rete di significati nei quali è immerso il mito della vergine è stato parte di un più ampio tentativo di ricerca riguardante la comprensione delle raffigurazioni non mediche e dei costrutti culturali intorno all’HIV e AIDS fra la popolazione zulu dell’area peri-urbana della provincia di KwaZulu-Natal (vedi Leclerc-Madlala, 1999).
Questa ricerca è stata basata sul lavoro etnografico sul campo che avvenne soprattutto fra il 1995 e il 1998 nella più grande area di Durban, Mariannhill. Si ricorse a un questionario a domande aperte, come guida per interviste approfondite con informatori chiave, rappresentanti un ampio e trasversale gruppo della comunità di Mariannhill. La maggior parte delle interviste fu condotta in zulu. Durante quel periodo di lavoro sul campo in Sudafrica si assisteva a un rapido e continuo aumento di infezioni da HIV. Verso la fine degli anni ’90 l’epidemia di HIV mostrò i segni di uno sviluppo in un’epidemia di morbosità verso l’AIDS e di morte.
Per la metà degli anni novanta il mito della vergine aveva raggiunto un’ampia diffusione in svariate comunità della zona. Nelle interviste e nei dibattiti con vari informatori, la “purificazione con la vergine” era stata identificata come possibile “cura” per questa nuova malattia, che le persone non hanno il coraggio di chiamare per nome. Mentre alcuni intervistati professavano la credenza nel mito, più frequenti erano quelli che affermavano che erano “altre persone” coloro che credevano nella purificazione con la vergine come trattamento contro l’HIV/AIDS. Certi guaritori tradizionali venivano incolpati di perpetrare il mito, siccome era stato detto che i guaritori consigliavano ai loro pazienti affetti da HIV di cercare un vergine per la “purificazione”. Era opinione ampiamente riconosciuta fra gli intervistati che tale credenza stesse aiutando la diffusione dell’HIV e contribuendo all’aumento dell’incidenza dello stupro infantile (Leclerc-Madlala, 1996). In una cittadina un gruppo di donne tenne un’udienza pubblica per, allo stesso tempo, aumentare la consapevolezza riguardo questo crescente problema e condannarne fortemente la pratica. Avevano l’intenzione di mandare un memorandum all’allora presidente Nelson Mandela, implorandolo di prendere posizione contro questo scellerato metodo di risposta all’AIDS. Nonostante le comunità esprimessero una profonda preoccupazione riguardo gli uomini che assalgono sessualmente dei bambini nella speranza di “curare” l’AIDS, durante tutti gli anni ’90 non ci furono tentativi di affrontare pubblicamente la questione attraverso campagne educative sull’AIDS nel KwaZulu-Natal come altrove.
Sporcizia del corpo
Il fondamentale lavoro di Sontag Illness as Metaphor (1978) evidenzia la specificità storica dei modi con cui la malattia e coloro che ne sono affetti sono stati considerati nella società. Come tale concezione sociale collezioni significati è stato esaminato da Fernandez (1986) come un processo di “metaforizzazione”. Egli scrive: “Data la loro natura, le metafore acquisiscono significato non solo attraverso la rappresentazione ma tramite l’attuazione o presentazione. La presentazione della metafora assume due forme: metafore come strumenti cognitivi che lavorano sui nostri concetti per formare un nuovo significato e metafore come atti o azioni comunicative, limitate dalla struttura sociale ma che danno adito a nuovi modelli di interazione sociale e tipologie di discorso (citato in Kirmayer, 1992, p.337).
L’analisi delle metafore volte a significare una salute malata risulta centrale nel processo di comprensione della conoscenza e della pratica in campo medico degli zulu. Ciò include più di un esame del “sistema di credenze”, un approccio analitico limitato alla capacità di spiegare l’esperienza e la gestione della malattia. Innanzitutto la cosmologia zulu non è “standardizzata” nella teoria e nella pratica e certe volte cambia, non solo a seconda dell’interpretazione del ricercatore ma anche fra i vari clan della regione di KwaZulu-Natal dalla quale provengono. Così, ciò che potrebbe essere tipico nell’epistemologia medica e nell’esperienza diretta nel Mariannhill può essere considerevolmente diverso nelle regioni più a nord della provincia, dove si dice che abbiano una conoscenza medica segreta e medicine “più forti”.
Tuttavia certi aspetti della conoscenza medica sembrano andare per la maggiore fra coloro che si identificano come zulu, come anche fra altri gruppi etnici presenti in Sudafrica. La metafora dello “sporco” e il significato che assume in relazione alla malattia e al suo trattamento sono significativi a questo riguardo. Un’analisi delle precedenti etnografie che hanno cercato di descrivere la conoscenza e la pratica medica indigena (Krige, 1944, 1974; Bryant, 1949; Ngubane, 1977; Hammond-Tooke, 1970, 1981) rivela che i concetti di corruzione e “sporco” in relazione alla malattia non sono stati sufficientemente considerati un problema. Jewkes e Wood (1999) hanno affermato che questi autori precedenti si sono largamente basati su analisi prudenti e interpretazioni del “sistema di credenze”, archiviando i concetti di corruzione e “sporco” alla categoria casuale detta “corruzione rituale”. Categorizzati in tal modo, questi concetti sono stati esaminati quasi esclusivamente in relazione alla sola sfera spirituale. Un’analisi del dibattito intorno alla salute riproduttiva delle donne nella provincia di Eastern Cape ha portato Jewkes e Wood ad affermare che il concetto di “utero sporco”, un esempio che sembra molto diffuso fra i loro intervistati, può rappresentare una categoria di malattia che viene usata come espressione idiomatica per indicare la malattia fisica fra gli xhosa. Fra gli zulu, che sono un gruppo strettamente in relazione agli xhosa e appartenenti alla stessa famiglia di lingue Nguni, le metafore della corruzione e dello “sporco” giocano un ruolo centrale nella concezione popolare della malattia. Le idee della “sporcizia” del corpo e dello “sporco” come stato dell’essere sono utilizzate come modelli etnopatologici ampiamente esplicativi della malattia, insiti e registrati nei comuni processi di gestione della malattia fra gli zulu. Mentre alcuni etnografi sudafricani come Hammond-Tooke (1981) si sono esplicitamente battuti per tenere varie categorie eziologiche “analiticamente separate”, come sostenevano Jewkes e Wood, un tale lavoro di ispirazione biomedica serve a limitare la nostra comprensione dell’eziologia della malattia a livello locale. Sebbene tali lavori possano fornire una valente informazione culturale, tendono a oggettivare una visione del mondo vissuta mettendo in risalto la classificazione della malattia piuttosto che l’esperienza e la gestione della stessa. In altre parole, l’azione umana nei confronti della malattia in certi lavori viene considerata totalmente derivante dalla conoscenza “razionale” astratta o dalle credenze. Tale presupposto porta a una comprensione limitata riguardo l’esperienza della malattia presso le comunità studiate.
Come forma di corruzione non rituale, presso gli zulu e sembra anche fra i vicini xhosa, l’essere “sporco” è un concetto centrale della malattia, attraverso il quale operano altri fattori causali (stregoneria, antenati, natura, ecc.). Piuttosto che essere una tipologia causale alternativa, l’essere “sporco” può essere compreso come un modello esplicativo della malattia. Dire che qualcuno ha i reni o l’utero “sporchi” è come dire che ha una malattia in quella parte del corpo. Come parte del processo terapeutico volto a “curare” la malattia specifica, un passaggio sarà necessariamente quello di “purificare” l’organo dallo “sporco”. Per la purificazione terapeutica, che implica purgare il corpo dal dannoso “sporco”, vengono usati vari preparati, alcuni ottenibili mediante la moderna farmacia e altre attraverso medici tradizionali. Lassativi commerciali e preparazioni per clisteri vengono utilizzati principalmente per la purificazione dallo “sporco” che interessa gli organi della regione addominale. I diuretici vengono invece usati principalmente per i disturbi urinari. Gli emetici sono considerati efficaci nella purificazione dello “sporco” associato ai malanni del petto o della gola. Per ottenere la stessa risposta purgante, risultano popolari anche le preparazioni tradizionali ricavate dalla combinazione di erbe. La gestione della malattia attraverso l’eliminazione dello “sporco” associato all’organo “sporco” può essere visto come la prima linea di difesa contro le malattie e come un percorso abituale di quasi ogni approccio alla terapia (Leclerc-Madlala, 1994). Il termine zulu “ukwelapha” si riferisce principalmente alla cura della malattia. Può essere utilizzato per descrivere una serie di procedure terapeutiche che possono includere ogni tentativo di prevenire, trattare o curare una malattia. Le affermazioni dei medici tradizionali riguardo al poter “curare” una malattia, che sia l’AIDS, il tumore al cervello o la fatica cronica, sono delle interpretazioni etnomediche che possono essere intese come pretese delle loro abilità nel trattare la malattia. Il significato di “trattamento” si riferisce a un onnicomprensivo approccio alla malattia, che può includere la prevenzione, il trattamento dei sintomi, la cura e/o un semplice palliativo.
Una comprensione del concetto della “sporcizia” del corpo, della sua significatività come modello esplicativo etnopatologico per la malattia e l’ampia accezione del termine “ukwelapha” come trattamento, sono componenti centrali sia nella costruzione metaforica della malattia che nella risposta terapeutica a quest’ultima, anche in tema AIDS. Secondo i locali e folkloristici modelli del corpo umano, ogni “sporco” responsabile di causare sintomi di una malattia in una particolare parte del corpo –“sporco” associato allo “stomaco sporco” (sintomi come disturbi addominali, mal di pancia, diarrea, costipazione, ecc.), o lo “sporco” del “petto sporco” (tosse persistente o ogni altra affezione bronchiale), o quello dei “reni sporchi” (minzione dolorosa, mal di schiena lombare, ecc.) – ha l’abilità di “mischiarsi al sangue” se non purificato in tempo, quando appaiono i primi sintomi. Quando questo “sporco” del corpo si mischia col sangue, ne risulterebbero dei sintomi di malattia più generalizzati rispetto a quelli associati agli specifici organi o regioni del corpo. Relativa a quest’idea è la concezione e tutti gli organi del corpo sono tra loro interconnessi. Così lo “sporco” che porta sintomi di malattia in una parte del corpo può essere trasportato in altre, attraverso il sangue, causando sintomi di malattia dappertutto. Attraverso la purga con l’uso di clisteri ed emetici, i terapeuti tradizionali puntano a purificare l’intero sistema piuttosto che un singolo organo colpito.
Donne “sporche”
La concezione del corpo femminile come altamente adatto a nascondere e covare lo “sporco” echeggia nelle descrizioni degli intervistati riguardo all’anatomia riproduttiva femminile. Ricerche condotte in Botswana (Ingstadt, 1990), Kenya (Udvardy, 1995) e Tanzania (Haram, 1997) mostrano delle similarità nel ritratto del corpo femminile adulto. Ingstadt (1990) registra come i corpi delle donne erano spesso paragonati a delle valigie che celano e trasportano la malattia agli altri. È un immaginario che risuona nelle descrizioni dell’anatomia femminile a Mariannhill. Un giovane ha descritto come allo “sporco” piacciano particolarmente tutte quelle pieghe e curve dentro la donna, perché lì può “nascondersi e crescere”. Sia gli uomini che le donne hanno delle visioni simili, che riflettono una relazione simbiotica tra le donne e lo “sporco” del corpo. Come luogo dove lo “sporco” ama particolarmente “nascondersi”, la vagina viene descritta come un passaggio aperto che conduce all’utero. Tale credenza potrebbe aiutare a spiegare la paura generalizzata che un preservativo possa “andare su” e “perdersi”. Le donne esprimono quest’ansia nel pensiero che un profilattico possa rompersi e scappare dal pene, “fluttuando dentro” e infine facendosi strada su per la cavità del corpo, causando una grave malattia. Un intervistato ha chiesto: “E se ti andasse su fino al cuore o addirittura in gola? Potrebbe strozzarti e quindi ucciderti.” Un altro ha affermato che un preservativo perso può “attorcigliarsi” e diventare così un ostacolo al flusso sanguigno, causando una pressione alta. Gli studi di Abdool-Karim et al (1995) hanno indicato la presenza di simili credenze fra le prostitute della zona fra Durban e Johannesburg.
Oltre al concetto che la vagina si apra nel resto del corpo e fornisca un ambiente ideale dove lo “sporco” che causa malattie può nascondersi, esistono delle concezioni riguardo l’umidità vaginale che sono significative alla concettualizzazione delle donne come “sporche”. La vagina e l’utero erano le zone maggiormente identificate come quelle dove lo “sporco” può “nascondersi”, “attaccarsi” e “crescere”. Il virus dell’HIV era evidentemente considerato come uno “sporco” specialmente forte e in grado di “entrare facilmente nel sangue” attraverso la vagina o l’utero. Il tema dell’umidità della vagina associato alla capacità di far “attaccare” lo “sporco” alle sue pareti era molto spesso presente nei discorsi degli intervistati riguardo le malattie sessualmente trasmissibili (MST) come l’HIV. Una giovane studentessa di infermeria descriveva in questo modo l’infezione da HIV: “Le donne sono bagnate giù da quelle parti. Quando c’è un’infezione, i germi vi si attaccano e puzzano. È così che capiscono che hanno una malattia sessualmente trasmissibile, l’HIV o un’altra. Con gli uomini non puoi sentire l’odore perché dentro non c’è niente.” Un giovane ha esprimeva delle preoccupazioni in riferimento a simili concezioni della vagina: “Dentro c’è l’oscurità, è bagnato, non è gradevole. L’AIDS lì può viverci, aspettando, e non puoi saperlo. Magari neanche la donna stessa non lo sa, perché è semplicemente appiccicoso. Avrebbe solo bisogno di un’analisi del sangue per esserne certi”. Un altro giovane uomo offriva invece la visione che oggigiorno gli uomini sono più timorosi a toccare una donna “là sotto” perché l’HIV/AIDS può “appiccicarsi alle tue dita e poi passare al tuo sangue se ha un graffio o una ferita aperta.”
Precedenti scrittori sugli zulu come Krige (1974), Bryant (1970) e Berglund
(1976) hanno notato come la malattia è solitamente definita dai suoi sintomi somatici. È ancora ampiamente così. Senza sintomi, si pensa spesso che non ci sia malattia. Con l’arrivo dell’AIDS, i media e i medici professionali hanno cominciato a portare l’attenzione sul lungo periodo asintomatico dell’infezione da HIV. Mentre una così relativamente nuova e diversa maniera di intendere la malattia può contribuire all’incertezza nei riguardi degli approcci al suo trattamento, esistono dei processi fisiologici femminili, le mestruazioni, che sono viste come un mezzo attraverso cui lo sporco “non visto” o asintomatico può fuoriuscire dal corpo.
Il mestruo è considerato come un sistema interno di purificazione. Il sangue mestruale viene considerato “sporco” perché si crede sia composto da tante diverse tipologie di “sporco”, accumulate in ogni regione o organo del corpo. Questo “sporco” quindi “si mischia al sangue”, prima di “raggrupparsi” nel grembo e poi uscire attraverso la vagina durante il periodo mestruale. Da un punto di vista etnomedico, le mestruazioni sono rappresentative di un processo attraverso il quale il corpo femminile si purifica da sé, automaticamente e regolarmente. Qui possiamo vedere la metafora dello “sporco” che acquisisce significato sia come strumento cognitivo che come presentazione espressiva, un processo che concorda con la descrizione che Fernandez (1986) fa della creazione di metafore, come di un processo duale di produzione di significato. Il sangue mestruale e le mestruazioni femminili sono “inquinanti” non solo da un punto di vista rituale e simbolico, ma sono intrinsecamente impuri nel vero senso della parola, poiché associati alla coagulazione e al trasporto dello “sporco” da altre parti del corpo. Quando il sangue mestruale passa dalla vagina, si crede che parte dello “sporco” che pervade il corpo “si attacchi” alle pareti vaginali, formando parte di quella “umidità” considerata come “sporca” e associata a vagine di donne adulte e alla malattia. Dato che ogni “sporco” può essere espulso o “purificato” dal corpo durante il mestruo, l’immaginario locale intorno all’HIV conferma che anche tale virus può essere espulso in tale maniera. Tuttavia, non si crede che tutto lo “sporco” relativo all’AIDS che può nascondersi in una donna possa venire purificato. Una giovane donna la mette così: “Quando una donna sanguina, tutto lo sporco scende giù ed esce; ma per quanto riguarda l’AIDS, la maggior parte sta nel tuo sangue, perché è molto forte. Certamente ne esce fuori, ma penso che la maggior parte si appiccichi dentro. Lo puoi veramente sapere solo con un test del sangue”. Come descritto in precedenza, molti intervistati pensano che lo “sporco” nel sangue possa essere espulso attraverso il mestruo, tuttavia le sole mestruazioni non sono considerate totalmente efficaci per liberare il corpo da tale cagione di malattia. Questo è specialmente vero per lo “sporco” relativo all’infezione da HIV, una tipologia considerata eccezionalmente potente e resistente.
Se quasi tutte le ricerche tendono a porre l’accento sui significati socioculturali negativi associati al tema del mestruo, nondimeno esistono delle associazioni positive, fra cui, naturalmente, la fertilità. Nel caso degli zulu, degli xhosa (vedi Jewkes e Wood 1999) e probabilmente anche fra altri gruppi etnici dell’Africa meridionale, il mestruo ha una dimensione positiva, come un tipo di processo innato che promuove la salute o, in termini etnomedici, un meccanismo naturale per “purificare” regolarmente il corpo dallo “sporco” legato alla malattia. Una maniera diffusa per riferirsi a una donna con le mestruazioni è dire che “questa settimana si sta purificando”. La prescrizione culturale secondo cui un uomo dovrebbe evitare di avere rapporti durante il mestruo, perché ciò lo “indebolirebbe”, ha un senso ben al di là della sfera della malasorte spirituale associata alla corruzione rituale. Proprio in senso letterale, ha un forte senso etnomedico che un uomo eviti rapporti con una donna che si sta “purificando”, in modo da evitare di venire “infettati” da ogni genere di “sporco” corporale che può essersi mischiato al suo sangue e fuoriuscire con le mestruazioni. La natura ciclica e regolare del mestruo assume anche significato come prova fisica che l’accumulo di “sporco” corporeo è una naturale proprietà e processo femminile. Dato il continuo funzionamento di quello che potrebbe essere descritto come un sistema automatico di purificazione, ecco la manifestazione fisica della propensione delle donne all’accumulo e conservazione dello “sporco”. Di conseguenza, si dovrebbe pensare che la natura abbia loro fornito una naturale capacità di espulsione dello “sporco” attraverso il mestruo perché hanno la necessità di avere tale abilità. Così una donna adulta con le mestruazioni è considerata come “sporca”, non solo in senso rituale o metaforico, ma proprio in senso fisico. Come affermato da Kirmayer (1992), è a causa della loro natura che le metafore producono significato, non solo attraverso la rappresentazione ma tramite una vera attuazione e presentazione. Il mestruo fornisce la presentazione della metafora dello “sporco” associata alle donne. Crea inoltre una serie di significati collegati al concetto di femminilità e suggerirei che fornisce una giustificazione di base per l’ineguaglianza di genere. Perciò è questa stessa “sporcizia” del metodo che è allo stesso tempo prova del suo vero potere, la fertilità, la capacità di produrre nuovi membri della società. Questo sosterrebbe la teoria di Douglas (1966), che dice che sia le valenze positive che le negative vengono riflesse nelle particolari sostanze che una cultura seleziona e indica come “sporco”.
Oltre alle associazioni con il mestruo, l’immaginario della “donna sporca” ritorna nelle descrizioni delle differenze fisiologiche tra gli organi sessuali maschili e femminili. Una vagina è “interna” e “aperta all’estremità”, mentre il pene è “esterno”, con solamente una piccola apertura che porta all’interno del corpo, spesso descritta come “tubo”. Anche se si dice che gli uomini siano capaci di espellere lo “sporco” corporeo tramite il proprio seme, la loro particolare anatomia riproduttiva non viene generalmente associata a quello “sporco” che “si nasconde”, che è “appiccicoso”, che “aspetta” o “giace silente all’interno come un bambino”, così come un intervistato ha descritto lo “sporco” dell’utero che causa i sintomi delle malattie sessualmente trasmissibili. Le descrizioni dell’anatomia riproduttiva femminile disegnano una vagina umida e intrisa di malattie, che si apre in un buio grembo simile a un nido, un utero che, in maniera discorsiva, viene rappresentato come attaccato oppure facente parte dello stomaco, con complesse interconnessioni con altri organi interni, che si trasmettono il sangue e lo “sporco” fra di loro. Si dice che un uomo che abbia un rapporto sessuale con una donna che si sta “purificando” (lo stesso termine usato per descrivere il mestruo) corra il rischio di contaminarsi il sangue con lo “sporco” della sua compagna. Come accennato, anche se lo “sporco” corporeo di una donna verrà espulso tramite il ciclo mestruale, si suppone che una parte possa comunque “attaccarsi” alle pareti vaginali. Se delle impurità o tipologie di “sporco” trovate nel sangue di una donna o appiccicate alle pareti vaginali risultano essere responsabili di una “nuova” infezione da HIV, poi gli intervistati diranno che è così che è stata trasmessa al suo partner sessuale. Alcune giovani donne credono che utilizzare del dentifricio per pulire internamente la vagina dopo le mestruazioni possa aiutare a “uccidere” parte dello “sporco” persistente. Tuttavia, siccome l’infezione da HIV è considerata particolarmente tenace, si dice resista ai rimedi casalinghi come quello del dentifricio, così come al Flagyl o agli antibiotici utilizzati per trattare le MST. Una ragazza di sedici anni ha detto che la maggior parte delle infezioni presenti “laggiù” potrebbe essere curata con lavaggi intimi a base di acqua salata, candeggina o Dettol (un antisettico topico), oppure applicando regolarmente del dentifricio (se non è disponibile altro) per due o tre giorni. Come molte altre giovani donne, questa ragazza credeva che l’HIV fosse “troppo forte” per piegarsi al solo uso del dentifricio o di “qualsiasi crema sbiancante”. Molti intervistati erano d’accordo nel ritenere che l’HIV richiedesse un trattamento addizionale con medicine tradizionali che fossero nere di colore, che pizzicassero quando applicate o che fossero amare di gusto. Ngubane (1977) fornisce un’analisi dettagliata del significato del colore nelle preparazioni medicinali indigene. Farmaci di colore nerastro sono considerati specialmente potenti per “tirare fuori il male” e per contrastare una malattia legata a opere di stregoneria.
È visione comune che l’HIV e altre malattie possano essere trasmesse facendo sesso con una donna con le mestruazioni. Come accennato, lo “sporco” derivante da qualunque malattia da cui possa essere affetta una donna, è più facile che persista nella vagina quando non vi è mestruo. Una donna ha detto che, se un uomo volesse veramente evitare l’HIV o altre infezioni, uno dei modi più sicuri sarebbe quello di mettersi un preservativo ogni volta che ha un rapporto sessuale. “I germi sono sempre lì. È da lì che escono. Una donna sa che laggiù deve pulirsi spesso.” Green (1994) ha trovato delle credenze etnomediche simili a proposito della trasmissione sessuale di un’ampia varietà di malattie in altri gruppi etnici dell’Africa meridionale, sia nello Swaziland che in Mozambico. Le infermità elencate dagli intervistati del KwaZulu-Natal includevano la tubercolosi, la congiuntivite, problemi urinari, nausea ed eruzioni cutanee. “Se la donna è affetta da tali patologie, allora l’uomo può prendersele se dorme con lei.” Questo quanto ha affermato un giovane uomo, specificando che, siccome lo “sporco” può “attaccarsi” alle pareti vaginali, uno può prendersi un’infezione anche se la donna non è mestruata. Come molti altri, quest’uomo si riferiva all’HIV come a un esempio di infezione particolarmente “ostinata”, perciò ritenuta capace di “nascondersi”, di “aspettare silenziosamente” dentro la vagina fra i cicli mestruali. Ha affermato: “L’HIV è sempre lì. Non lascia il corpo facilmente.”
Asciutto e stretto, bagnata e larga
La presenza di umidità o fluidi vaginali, insieme all’ampiezza e al tono muscolare del canale vaginale, vengono usati come indici di carattere morale ed esperienza sessuale. L’associazione tra vagine “umide” e “larghe” e donne dalla morale “larga” ricorrono nei discorsi popolari. La promiscuità delle donne viene ampiamente considerata alla radice dell’attuale epidemia di AIDS (Leclerc-Madlala, 1999). La donna di “larghe vedute”, metaforicamente rappresentata dall’immagine della vagina “larga”, è colei ritenuta responsabile di tale piaga. La crescente popolarità dei test di verginità nello KwaZulu-Natal può essere interpretata come un tentativo di riaffermazione del controllo sulla sessualità femminile, in un tempo in cui questa viene percepita come “fuori controllo” e portatrice di caos sotto forma di crescente malattia e morte (Leclerc-Madlala, 2001). Basandosi su di una serie di attributi fisici tra i quali le caratteristiche della vagina, i controllori di verginità valutano l’esperienza sessuale. La verginità si ritiene appurata quando si ha una vagina “stretta” e “asciutta”. Una non vergine viene ritenuta riconoscibile dal fatto che ha una vagina “ampia” e “umida”.
Le giovani donne riconoscono l’importanza di essere “asciutte e strette” per passare il test ed essere dichiarate vergini. Essere “asciutte e strette” è anche importante quando si dorme con un uomo, specialmente la prima volta. Ciò è considerato necessario affinché un uomo pensi che la donna è “come una ragazzina” e non “qualcuna con tanti compagni”, quindi “pulita”. La capacità di dare l’illusione di verginità grazie a una vagina “stretta e asciutta” era considerata parte della conoscenza segreta di una donna, del suo repertorio sessuale. Esse hanno familiarità con una varietà di metodi e sostanze ritenute essere in grado di “asciugare” e “pulire” la vagina, in modo da essere più sessualmente attraenti e accettabili per gli uomini. In uno studio sulla prostituzione, Abdool-Karim et al (1995) hanno scritto riguardo una pratica di lavaggio intimo a fini contraccettivi effettuata con il Jik (candeggina), il Dettol o lo Savlon (antisettici topici). Le donne di Mariannhill dicono che tali sostanze non solo “uccidono lo sperma” e i “germi”, ma hanno anche l’utilità di far “restringere” la vagina. Le donne dichiarano di “sentirsi fresche”, pulite e sessualmente attraenti dopo un tale lavaggio intimo. Altre sostanze identificate come utili all’asciugamento e al restringimento della vagina sono il tabacco da fiuto, il bicarbonato di sodio, il borotalco, cubetti di ghiaccio e del semplice sale. Una delle più popolari pare sia il sale grezzo (spesso chiamato con il nome del brand “LION”), che viene messo dentro la vagina fino a due ore prima del rapporto sessuale.
Le donne hanno affermato che una vagina asciutta è piacevole per gli uomini, poiché li porta ad eiaculare più velocemente e assiste quelli con un pene di dimensioni ridotte o “troppo molle per compiere il lavoro”. Oltre ai significati associati al piacere, ve ne sono altri a far maturare la valenza psicologica intorno all’asciugamento e “pulizia” della vagina. La metafora della vergine asciutta e pulita ha un significato sia come costrutto cognitivo che come esperienza rappresentata. Porta via le paure derivanti dalle associazioni degli umori femminili con quello “sporco” che è collegato a ogni tipo di malattia che possa provenire da altre parti del corpo. Una donna, la quale difendeva l’uso del sale LION e del borotalco come agenti asciuganti, ha detto semplicemente che la vagina contiene dello “sporco” che deve essere rimosso dal corpo. Ha aggiunto che un uomo preferisce una donna che sia “stretta” e “asciutta” perché la “considera pulita”. L’uso di simili sostanze per asciugare e restringere la vagina sono stata ampiamente rilevate in altri Stati africani (vedi Arnfred, 1989;
Runganga et al, 1992; Brown et al, 1993; Green, 1994), ma rimane studiato inadeguatamente in termini di contributo all’epidemia di HIV e di altre malattie sessualmente trasmissibili.
Il potere terapeutico delle vergini
Nel suo studio etnografico sui concetti medici degli zulu, Ngubane (1977) ha evidenziato come, paragonati ad altri umori corporei, i fluidi sessuali femminili sono una categoria a parte. L’autore attribuiva la loro l’unicità al fatto che rappresentano il potere della donna in termini di riproduzione. La modellizzazione dell’anatomia sessuale femminile come ambiente umido e malsano deve essere considerata all’interno del contesto della società zulu, strutturata e dominata in modo patriarcale. Douglas (1966) ha affermato che le sostanze infettanti (ossia i fluidi vaginali) simbolizzano delle forze minacciose, che mettono in pericolo il vero ordine simbolico che le produce. La vagina è il primo oggetto del piacere dell’uomo, così come è in relazione con la nascita. È un potente simbolo del potere sessuale e riproduttivo di una donna, entrambi considerati componenti necessari alla vita. Le paure patriarcali per il potere femminile si fondono tutte nel simbolismo della vagina; il buio, umido e misterioso passaggio carico d’insidie sotto forma di “sporco” e pieno di delizie, in forma di piacere sessuale e di generazione di nuovi membri della società.
Suggerirei che queste associazioni fortemente negative nei confronti della vagina e dei suoi fluidi possano essere intese essenzialmente come un’espressione delle paure e delle insicurezze culturali rispetto al potere insito nelle donne, il che è in disaccordo con l’ineguaglianza di genere e con la loro generale mancanza di potere nella società.
Ci si aspetterebbe che il processo di gestione di una malattia che è eziologicamente collegata al sesso con una donna “sporca” segua la logica dei processi etnopatologici per la purificazione dallo “sporco” corporeo. In aggiunta, ci si potrebbe aspettare di fare ricorso ai significati simbolici connessi alle donne adulte e alla loro “umidità” vaginale portatrice di malattie. La credenza che un rapporto sessuale con una vergine possa “curare” un uomo dall’HIV/AIDS è inserita nel contesto delle associazioni metaforiche riguardo le donne sessualmente attive con una vagina “umida/sporca”. Secondo il mito della purificazione con la vergine, un uomo può “purificare” il suo sangue dall’HIV/AIDS tramite un rapporto sessuale con una vergine, ma la ragazza stessa non ne risulterebbe infettata. L’ampia categoria di prevenzione-trattamento-cura viene racchiusa nella terapia della purificazione con la vergine, nella quale il rapporto viene anche considerato come una vaccinazione contro la minaccia di future infezioni da HIV. Così tale purificazione viene vista come qualcosa dall’effetto sia terapeutico che profilattico. Nelle interviste con molti guaritori tradizionali, la purificazione o rapporto sessuale con una vergine è stata considerata una via attraverso cui un uomo pensa di ottenere una qualche “forza” contro l’infezione da HIV. Non è chiaro se ciò significhi che è periodicamente necessaria una “purificazione” addizionale per poter mantenere la forza dell’inoculazione. Sebbene questi particolari guaritori dicessero di essere contrari a tale pratica e rigettassero le testimonianze circa la sua efficacia, tutti loro hanno affermato di avere diretta conoscenza di altri guaritori che raccomandano la purificazione con la vergine come modo per trattare l’AIDS.
Fra questo gruppo di guaritori non c’era consenso riguardo quali fossero le qualità relative alla verginità ritenute in grado di dare alla ragazza una speciale “immunità” contro la trasmissione dell’HIV dal partner maschile infetto.
Vengono usate basicamente due argomentazioni differenti per spiegare tale processo.
Alcuni intervistati hanno detto che una vergine evita di infettarsi poiché “lì è chiusa”. Il passaggio dalla vagina al corpo viene visto come “chiuso” dall’imene intatto. Questo viene considerato come una barriera che evita che l’HIV entri dentro e si stabilisca nel grembo delle ragazze, per finire poi dentro al “sangue”. Questa credenza è qualcosa di simile ad alcune altre rilevate nell’Africa occidentale, dove si crede che certe malattie sessualmente trasmissibili vengano passate a causa di un verme, che entrerebbe attraverso l’uretra dell’uomo dopo che ha fatto sesso con una donna infetta (Green 1994, p.88). Si crede che il verme venga ucciso quando si scontra contro un imene intatto. Una visione alternativa offerta dagli intervistati per spiegare perché si creda che una vergine abbia una speciale immunità nei confronti dell’infezione da HIV (e altri malanni che si credono trasmessi sessualmente) ha a che fare con la “asciuttezza” del suo tratto vaginale. La vagina di una preadolescente non viene associata alle lubrificazioni vaginali di una donna adulta. Il suo tratto vaginale, anche se sottosviluppato, è considerato come “pulito”, “asciutto”, “incontaminato”. Essendo una superficie asciutta, si crede che lo “sporco” non possa facilmente attaccarvisi. Un intervistato ha usato l’analogia del gusto: “Puoi sentire qualcosa sulla tua lingua solo se è bagnata, il gusto può appiccicarsi. Non puoi gustare le cose sulla tua mano, è asciutta”. Un altro ha fatto riferimento al caso delle infermiere di un ospedale della zona rurale dello Zuzuland, che anni fa sembra abbiano mostrato la loro disapprovazione verso le condizioni di lavoro tirando delle fiale di sangue infetto da HIV per le corsie dell’ospedale. “Vedi, i pazienti avrebbero potuto infettarsi se il sangue avesse toccato loro gli occhi, le labbra o delle ferite aperte”. In generale, le superfici anatomiche umide sembrano essere associate alle malattie, come zone in cui i “germi” o lo “sporco” possono attaccarsi. Suggerirei che le qualità di “asciuttezza” e la relativa metafora dell’essere “puliti” siano le caratteristiche essenziali associate all’efficacia del trattamento dell’AIDS attraverso un rapporto sessuale con una vergine.
La struttura della logica di base, che collega le credenze etnomediche all’idea della purificazione con la vergine come approccio terapeutico contro l’AIDS, si può trovare in quel principio omeopatico che precedenti scrittori di etnomedicina zulu come Callaway (1884), Schimlek (1950), Bryant (1970) e Berglund (1976), hanno tutti descritto come un cardine centrale e fondamentale, ossia la magia simpatica. La magia simpatica attinge ai concetti etnopatologici dell’omeopatia, per cui “il simile genera il simile”. Le condizioni mediche si credono trattabili attraverso sostanze che sono simbolicamente associate a tali condizioni. Per esempio, un uomo calvo verrà trattato con delle erbe provenienti da giardini dalla crescita rigogliosa; la codardia è trattabile invece mangiando un po’ di cuore di leone; una donna ciarliera e aggressiva può essere aiutata contro tale “malattia” con dei bocconi di una timida pecora, ecc. Questi sono solo alcuni esempi di processi etnoterapeutici che implicano la manipolazione di simboli così come di sostanze materiali. Possono inoltre essere rilevanti per la comprensione della purificazione con la vergine come risposta all’HIV/AIDS.
Così come le cose e le azioni assimilabili, si crede che anche i suoni e i colori simili producano un effetto simile. Berglund (1976, p.354) si riferisce a tali concetti come “associazioni simpatiche”. In aggiunta a queste ultime, nei trattamenti medici vengono usate anche le relative proprietà “antagoniste”. Qui si crede che le cose associate fra loro agiscano l’una contro l’altra, essendo antagoniste poiché simili. Concettualmente, una vergine potrebbe essere sufficientemente simile a una non vergine. La differenza chiave sta nel fatto se la sua sessualità venga percepita come libera dalle caratteristiche di sporco-umidità-malattia associate alla sessualità di una non vergine. Quindi il sesso con una vergine “pulita” potrebbe essere visto come capace di un effetto “antagonista” su di una malattia che si crede venga causata dall’aver fatto sesso con una “sporca” non vergine. Le credenze riguardo l’efficacia della purificazione con la vergine sono senza dubbio intimamente legate al concetto che la vagina, la potenziale “zona di appiglio” per lo “sporco” relativo all’AIDS, sia pulita e asciutta, in tal modo priva della “umidità” associata alla malattia della donna sessualmente attiva. La metafora è compresa e potenzialmente presentata attraverso l’idea che se una donna adulta sporca e bagnata può trasmettere l’AIDS a un uomo, allora una ragazza pulita e asciutta glielo potrà togliere (5).
Sono necessari ulteriori studi per comprendere le specificità storiche che hanno contribuito al diffondersi dell’ideologia del sesso con una vergine come cura contro l’AIDS nel Sudafrica contemporaneo. Mentre tale mito può aver guadagnato popolarità nel locale contesto epidemico, esistono degli interessanti parallelismi con delle tecniche già precedentemente utilizzate in altri posti per ragioni simili. Ad esempio, la purificazione con la vergine una volta era considerata una cura contro le malattie veneree in Europa. Smith (1979) ci racconta che gli inglesi del secolo scorso credevano che un rapporto con una bambina vergine curasse le MST. Pare che dei dottori ciarlatani, almeno dal 1827, avessero dei bordelli speciali a Liverpool, proprio per fornire tale cura. Le ragazzine che venivano usate erano spesso ritardate. Smith descrive un caso processuale del 1884, nel quale un uomo con una “brutta ulcera sifilitica” aveva stuprato una ragazza di quattordici anni. La sua difesa fu che non voleva farle del male, ma solo curare sé stesso (Smith, 1979, p.303). Tali maniere di trattare le malattie sessualmente trasmissibili nell’Europa del secolo scorso possiedono delle similarità affascinanti e veramente inquietanti con quelle attuali praticate contro l’AIDS in varie zone dell’Africa.
In uno studio riguardo la tubercolosi in Etiopia, Vecchiato (1997) evidenzia come le credenze in tema di salute siano incluse in dei sistemi di conoscenza etnomedica che hanno la propria logica interna. Fanno parte di un modello culturale che porta a dare un significato all’esperienza della malattia. Comprendendo ciò, dobbiamo quindi apprezzare pienamente l’importanza dei modelli culturali in relazione ai comportamenti che cercano la salute, particolarmente quando si collegano ai nostri sforzi di capire le reazioni all’HIV e all’AIDS in Africa. In questo studio ho cercato di gettar luce su alcune credenze etnomediche del popolo di lingua zulu, relative allo sporco corporeo, le donne e l’HIV/AIDS, poiché rilevanti per la comprensione del mito della purificazione con la vergine. Il focus su tale corpo di conoscenze mediche indigene non nega in alcun modo la complessa natura sistematica delle credenze delle persone riguardo salute e malattia, né la loro relazione con la gestione della malattia o altre forme di comportamento. In una società multiculturale e in rapida modernizzazione come quella del Sudafrica, il pluralismo medico ha a lungo caratterizzato il contesto delle decisioni intorno alla scelta terapeutica e di salute. Nelle risposte quotidiane delle persone al loro male, vengono spesso mantenute e riflesse delle visioni relative alla salute e alla malattia che sono varie, complesse e spesso intimamente contraddittorie. La gente prende e sceglie fra delle azioni alternative, tramite un processo basato sull’uso di tutta la conoscenza disponibile. Alcune strategie possono essere più basate sui sistemi di credenze etnomediche mentre altre più sulla biomedicina occidentale o qualche altro sistema. Oltre a riconoscere l’esistenza di sistemi di credenze in competizione, diviene vitale localizzare la nostra comprensione all’interno del contesto culturale e sociale contemporaneo. Una spiegazione cognitiva del comportamento della malattia semplicemente non è sufficiente. Le componenti cognitive, che identifichiamo come credenze e conoscenza, sono elementi ai quali bisogna aggiungere i fattori economici, materiali, sociali e politici per poter comprendere in toto i modelli comportamentali. Come mostrano Pelto e Pelto (1997), soppesare e valutare questi fattori riveste grande importanza nella definizione delle influenze culturali sul processo decisionale riguardo la gestione della malattia.
In Sudafrica, come altrove nel mondo, sono state usate teorie e modelli per sviluppare una comunicazione riguardo HIV e AIDS, ampiamente basata sui modelli di psicologia sociale che enfatizzano la scelta individuale. Come affermato da Triandis (1994), il corpus della psicologia sociale si riferisce ai comportamenti delle persone di cultura occidentale e può avere delle severe limitazioni quando applicato in contesti per cui non è stato progettato (Yoder, 1997). Dopo due decenni di battaglia contro l’epidemia di AIDS, sono sorte ora delle questioni serie riguardo la rilevanza di alcune teorie/modelli più comunemente utilizzate come guida per le strategie di comunicazione e le politiche di prevenzione contro l’HIV/AIDS, in particolare in Africa, Asia e America Latina (vedi ad esempio Airhihenbuwa, 1995). La “pecca” di queste strategie è stata ampiamente identificata con il loro fallimento nella comprensione che le differenze nei comportamenti salutistici sono primaria funzione del contesto culturale e sociale. Nel migliore dei casi, la “credenza” è arrivata a essere usata come misura diretta della cultura, in modo che le credenze e la conoscenza riguardo la malattia diventino il focus di messaggi e d’interventi “culturalmente appropriati”. Più comunemente, la “credenza” è in contrasto con la “conoscenza”, così che la prima viene usata per indicare concetti che sono erronei dal punto di vista della biomedicina e che costituiscono un ostacolo a un comportamento appropriato (Pelto e Pelto 1997, p.148). L’accostamento fra “cultura” e “credenza” quindi acquisisce un’accezione biomedica negativa e diventa una metafora per “ostacolo”. Così, il compito della prevenzione dell’AIDS in molti contesti non occidentali diviene quello della rimozione delle “barriere culturali” e agisce essenzialmente con la modifica comportamentale, un’azione che, come sostiene Clatts (1994), ha più a che fare con il controllo sociale che con la prevenzione della malattia.
Il recente interesse riguardo il mito della purificazione con la vergine in Sudafrica ha portato a diversi tentativi volti a valutare l’esistenza di tale “credenza”, intesa come barriera culturale e sempre più spesso descritta come erronea, risultato dell’ignoranza o della mancanza di educazione. Un recente studio sui comportamenti dei lavoratori di una fabbrica della Maimler Chrysler ha mostrato che il 18% della forza lavoro crede nel mito della purificazione con la vergine. Secondo un altro studio, effettuato dagli educatori in tema di salute della provincia di Gauteng, il 32% degli intervistati ha espresso una credenza in tale mito (Plusnews, 2002). Un’indagine nazionale che ha coinvolto oltre 9000 giovani ha stimato che il 13% dei partecipanti credeva che la purificazione con la vergine potesse prevenire l’AIDS (Anderson, 2002).
Se tali scoperte sono d’interesse come “prova” dell’esistenza di tale mito e possono risultare utili nelle discussioni riguardo specifiche visioni del mondo, in realtà rivelano ben poco. Una ricerca che tenti di calcolare e attaccare una percentuale a una singola “credenza” riguardante l’AIDS ha un valore relativamente contenuto quando cerca di sviluppare degli interventi che fanno della cultura la risorsa organizzativa centrale. Sotto questione qui è la relazione tra le affermazioni orali riguardo il mondo e la pratica quotidiana. Ciò che serve è un modello che colleghi credenza e conoscenza a un comportamento che sia sensibile agli schemi culturali e al mondo delle interazioni sociali quotidiane, guidate da questioni materiali, economiche, politiche, ecc. Nella valutazione dei modelli di cambiamento comportamentale utilizzati nella prevenzione dell’AIDS in Africa, Airhihenbuwa e Obregon (2000) sono fortemente a favore di un più profondo apprezzamento e comprensione della centralità dei contesti culturali, piuttosto che di una semplice identificazione di credenze individuali.
Con nuove sfide, come ad esempio la falsa sicurezza attualmente generata dalla visione di massa promossa dai media, o i trattamenti anti AIDS oppure la speranza di un vaccino per controllare l’epidemia, diventa ancora più critico che si presti attenzione ai fattori contestuali che potrebbero o non potrebbero rendere note alle persone le risposte contro l’epidemia. La purificazione con la vergine, come scelta terapeutica contro l’AIDS di una certa diffusione, può aver raggiunto una certa popolarità per il fatto che i trattamenti biomedici moderni non sono prontamente disponibili alla gran parte delle persone affette da HIV/AIDS. Rimane da verificare se la sentita piaga dello stupro infantile e non, insieme alla credenza della purificazione con la vergine, possa subire una battuta d’arresto con l’introduzione di un trattamento antiretrovirale conveniente e accessibile. Data l’attuale mancanza di trattamenti alternativi, insieme al fatto che arriva nei tribunali solo una porzione estremamente piccola di tutti i casi di stupro, e molti dei condannati godono di sospensione della pena (vedi Jewkes e Abrahams, 2000), probabilmente alcuni uomini percepiscono di avere ben poco da perdere nel cercare di purificarsi dall’AIDS attraverso il sesso con una vergine, indipendentemente dal fatto se credano a questo mito o meno.
NOTE
1. I dati di questo studio sono comparsi sul servizio di informazione collaborativa online dell’UNAIDS, PLUSNEWS (24 aprile 2002), in un articolo dal titolo “South
Africa: Focus on the virgin myth and HIV/AIDS “. Se la polizia sudafricana fornisce aggiornamenti regolari delle statistiche dello stupro, si parla molto riguardo la loro accuratezza, dato che è ampiamente riconosciuto come troppo spesso tale crimine non venga denunciato. Alcuni ricercatori affermano che in Sudafrica viene commesso uno stupro ogni 24 secondi, mentre altri sostengono che il dato sia più vicino a uno ogni cinque minuti, almeno nel gruppo primario, quello fra i 17 e i 48 anni (vedi Jewkes e Abrahams, 2000).
2. Visioni opposte riguardo l’incidenza e i fattori causali dello stupro infantile in Sudafrica riempivano svariati forum online di notizie in tema di salute all’inizio del 2002. AF-AIDS (9 maggio 2002) ha fornito un articolo intitolato “The virgin myth and
child rape in South Africa”, dove si analizza la risposta di R. Jewkes al commento di G. Pitcher e D. Bowley apparso sul The Lancet (vol. 359, p.9303, 26 gen. 2002).
3. Da rapporti comunicativi con i pediatri di tre ospedali della provincia di KwaZulu Natal e con gli operatori sociali di Childline, un’organizzazione dedita alla lotta contro gli abusi sui bambini in generale, si può dedurre un alto grado di dubbio riguardo il fatto che il recente ed evidente aumento dello stupro infantile non venga mostrato dagli studi promossi dal governo. Dalla loro esperienza, essi credono che ci siano stati dei netti aumenti durante i due o tre anni passati, o dal 1999 in poi. Potrebbe essere significativo che tale periodo temporale coincida con la maturazione di un’epidemia di AIDS da latente a visibile, con un netto aumento delle morti.
4. Tali commenti furono fatti dal Ministro dell’Istruzione Kader Asmal a chiusura del dibattito parlamentare pubblico sugli abusi sui bambini e lo stupro infantile, nella settimana del 17 marzo 2002.
5. È significativo come il mito della purificazione con la vergine sia anche ritenuto un fattore alla base dello stupro di donne anziane. Come per una ragazza vergine, la sessualità di donna dopo la menopausa non viene più associata ai fluidi sessuali “contaminanti” del mestruo e della “umidità” vaginale. Forse una donna anziana condivide lo status concettuale di vergine con le ragazze non sessualmente attive, quindi un rapporto con loro potrebbe avere lo stesso effetto “antagonista” contro l’infezione da HIV.
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Informazioni sull’autrice dell’articolo:
Suzanne Leclerc-Madlala, PhD
Senior Technical Advisor, Ufficio HIV/AIDS
US Agency for International Development (Agenzia statunitense per lo sviluppo internazionale)
Washington, DC
Suzanne Leclerc-Madlala è conosciuta per il suo lavoro antropologico in Sudafrica ove dal 1995 le sue ricerche e pubblicazioni focalizzavano sulle intersezioni tra cultura, sessualità e HIV, in particolare riguardo alla vulnerabilità delle giovani donne. Oltre al suo lavoro accademico per anni ha insegnato presso le università di Transkei e di Durban-Westville e come professoressa e direttrice del dipartimento di antropologia presso l’università di KwaZulu-Natal, essendo anche impegnata come Chief Research Specialist presso l’HSRC. La Prof. Leclerc-Madlala si è impegnata nella creazione, implementazione e valutazione di programmi HIV in Sudafrica, lavorando anche come consulente per UNAIDS, SADC, la Banca Mondiale, l’OMS e diverse ONG regionale e CBO. La Dr. Leclerc-Madlala ha collaborato nella stesura della bozza di legge del South Africa’s Sexual Offences Act e del Children’s Bill, pubblicando anche l’Action Brief on Intergenerational Sex in Southern Africa per l’UNAID nel 2009.
Attualmente la Prof. Leclerc-Madlala sta lavorando presso USAID come antropologa a livello direttivo, sostenendo l’USAID e il PEPFAR nell’ottimizzazione della sensibilità culturale della programmazione HIV in Sudafrica. È membro dell’equipe di prevenzione per l’HIV dell’USAID e dei gruppi di lavoro Interagency Technical Working Groups per la popolazione generale e la gioventù e il sesso. È anche membro del comitato scientifico dell’International AIDS Society e del gruppo Ethics in Prep Group dell’OMS.
Pubblicazioni recenti:
2014 Silver Bullets, Glass Beads, and Strengthening Africa’s HIV Response.
The Lancet 383: 1203-1204.
2014 The Promise and Limitations of Cash Transfer Programs for HIV Prevention. (with J.
Fieno) African Journal of AIDS Research 13 (2): 153-160.
2014 Do Community-Based Programs Help to Improve HIV Treatment and Health Outcomes?
A Review of the Literature. (with U. Amanyeiwe) World Journal of AIDS 4: 311-320.
2013 Transactional sex, young women, and HIV in Africa: Are we there yet?
Future Medicine8 (11): 1041-043.
2011 Relating Social Change to HIV Epidemiology. Editorial. Future Virology 6(7): 1-3.
2009 Cultural Scripts for Multiple and Concurrent Partnerships in Southern Africa: Why
HIV Prevention Needs Anthropology. Sexual Health. 6, 103-110.