Nazione guerriera. Il militarismo nella cultura degli Stati Uniti
Nazione Guerriera è il titolo che il professore americano Gordon Poole, titolare di una cattedra presso l’Istituto Universitario Orientale di Napoli, ha pubblicato nel 2001 con l’editore Colonnese di Napoli. Quando si parla di nazione guerriera, per associazione di idee, il pensiero vola alla Germania di Guglielmo Secondo e di Hitler o al Giappone dei Samurai e dell’ammiraglio Togo e non agli Stati Uniti d’America un popolo che, nel giro di due secoli, trasformò un territorio selvaggio nella più grande potenza del mondo e nel ‘900 intervenendo nella Grande Guerra salvò Francia, Gran Bretagna e Italia dalla disfatta contro gli Imperi centrali, nella seconda guerra mondiale le democrazie occidentali contro la Germania nazista e il Giappone imperiale e negli anni successivi l’Europa dal comunismo, una breve storia che l’autore descrive come un seguito di sopraffazioni contro i nativi e il resto del mondo. Si prova però un senso di impaccio a fare quest’ultima osservazione, perché il professore ha un ricordo nostalgico della defunta Unione Sovietica, uno Stato che si è afflosciato su se stesso senza sommovimenti interni o invasioni dall’estero, uno Stato, le parole virgolettate sono sue, “socialista” che “richiedeva un clima di pace per realizzare le proprie potenzialità“, potenzialità che uomini come il russo Solzenityn nei gulag o gli ufficiali polacchi a Katyn avevano esperimentato sulla propria pelle. Poole ha invece le idee chiare, le cause dell’implosione risalgono alla cinica politica estera degli USA. Vale la pena di seguire metodicamente alcune affermazioni del professore per meglio caratterizzarlo. A pagina nove si sostiene perentoriamente che sono “le democrazie che creano gli imperi” e non si capisce se in questa definizione rientri anche l’impero ottomano che andava dall’Europa, all’Asia e all’Africa, il Giappone del Tenno con la sua politica nei confronti della Corea e della Cina, la Russia zarista con la sua espansione nell’Asia centrale. Segue poi una panoramica della guerra di Secessione e delle guerre contro gli Indiani e si arriva alla guerra francoprussiana del 1870. Audacemente il Nostro riporta la tesi di James Truslow Adams che sosteneva esservi stata l’influenza del generale americano Sheridan sulla condotta germanica, ovviamente malvagia, della guerra, alla quale partecipò come spettatore al seguito di Bismarck, una guerra dalla quale la Germania uscì come la maggior potenza militare europea. Helmuth von Moltke capo di stato maggiore dell’esercito tedesco e allievo di Clausewitz, al quale va il merito di aver creato il Grande Stato Maggiore Generale e uno strumento militare di prim’ordine vittorioso contro la Danimarca nel 1864 e contro l’Austria nel 1866, teneva in così gran conto i generali americani da scrivere che: “Nella guerra di Secessione gli eserciti si erano rincorsi per tutto il territorio sparandosi addosso“. Solleva ilarità la tesi che Moltke, considerato dopo Napoleone il miglior generale europeo, uomo austero e orgogliosissimo, subisse l’influenza di un generale straniero. Va aggiunto che l’arrivo di Sheridan “verso la metà di agosto 1871” avvenne a distanza di quasi un anno dalla resa di Napoleone Terzo a Sedan. Si può aggiungere che tutti gli stati maggiori europei snobbarono la sanguinosissima guerra di Secessione. “Se qualsiasi guerra moderna possa risolvere un qualsiasi problema internazionale” è a pg. 28 la classica domanda che i pacifisti di tutti i tempi ed opinioni si sono posti e si pongono. Una risposta potrebbe essere quella della seconda guerra mondiale quando, in un mare di sangue, fu cancellato il cancro nazista, un conflitto iniziato nel 1939 con l’aggressione tedesca della Polonia, spalleggiata dall’Unione Sovietica, allora alleata di Hitler. Questa domanda né pone un’altra, quali vie pacifiste restavano alle potenze democratiche per fronteggiare la volontà di potenza della Germania nazista? A pg. 92 l’autore enfatizza “la rivolta della truppa“, ossia i malumori delle truppe americane per le lungaggini della smobilitazione dopo la fine della seconda guerra mondiale, “rivolta” che, a detta dell’autore, creò gravi preoccupazioni nel governo americano il quale: “si trovava di fronte a una massa di combattenti armati, sostenuti da una larga parte della società civile” e fu costretto ad affrettare le relative procedure. Trapela dallo scritto del professore la delusione per la mancata grande rivolta da trasformare nella sospirata Rivoluzione contro il governo capitalistico. Viene da domandarsi quali sarebbero state le misure di Stalin e dei suoi servizi nel caso di una “rivolta della truppa” nell’Armata Rossa, impegnata nell’instaurazione di regimi comunisti in tutta l’Europa orientale. Sulla guerra di Corea, mr. Poole non spende stranamente parole, eppure all’epoca L’Unità con titoli a tutta pagina sosteneva che le gloriose truppe della Corea del Nord avevano prima vittoriosamente respinto un attacco dei fascisti sudcoreani per poi dilagare in tutta la penisola per portarvi la pax rossa che ancora oggi esiste nella Corea del Nord. Anche sul Vietnam le idee sono chiare. Il Vietnam del Nord “decise di affidare la promessa riunificazione alla forza delle armi” alla faccia dei principi pacifisti sbandierati. Segue un elenco lungo nove pagine di atrocità americane, si dimentica che tutte le guerre tra eserciti regolari e formazioni irregolari (guerriglieri, partigiani, ribelli) si svolgono in una spirale di violenza che non ha eguali. E’ sufficiente riflettere sugli scontri, imboscate, colpi di mano che avvenivano tra guerriglieri spagnoli o calabresi e le truppe napoleoniche, partigiani sovietici o jugoslavi e Tedeschi, Fronte di liberazione algerino e Francesi, per rendersi conto di quanto crudele siano queste guerre. Si potrebbe aggiungere che i Vietcong iniziarono la guerra di liberazione assassinando circa 3000 funzionari civili e sindaci del Vietnam del Sud, allo scopo di creare il clima di terrore necessario alla guerra popolare. Di certo sulla guerra le parole di Charles C. Moskos non sembrano fuori luogo: “Se ha da esservi un conforto finale per il veterano del Vietnam, questo può essere trovato in una rivalutazione del ruolo americano nel Sud-Est asiatico. Di certo il soldato americano dovette svolgere un compito che non gli piaceva e non capiva; ma può trarre una triste soddisfazione nel fatto che gli eventi in Indocina dopo la sua partenza mostrano che la sua missione lì aveva una giustificazione morale“. L’autore termina la sua opera, riassunta per sommi capi, dopo divagazioni sulle guerre future con un capitolo sulla “Strage di stato a Waco, Texas” iniziata con la morte di quattro agenti e il ferimento di 15, ma: “Pare che gli agenti non si siano portati neanche il mandato di arresto che, teoricamente, sono andati lì per eseguire“. Poole, sempre sostenitore della malvagità dei suoi concittadini, rifiuta la versione dei fatti che: “Janet Reno, ministro della giustizia e generalmente identificata come femminista progressista” dà della tragedia e l’aggiunge al suo carniere di crudeltà e malvagità del governo dei suoi concittadini. Gordon Poole, a giudizio di chi scrive, è il tipico intellettuale radical, affetto da volontà autoflagellatoria, nemico del pensiero liberale e della società occidentale. Da una vita vagheggia un mondo diverso, mai ben definito, che, dopo aver identificato nell’Unione Sovietica di Stalin e dei suoi discendenti, nella Cina di Mao, nel Vietnam di Ho Ci Min, nella Corea del Nord di Kim Il Sung, nella Cambogia di Pol Pot fino a ridursi alla Cuba castrista si conclude in un pacifismo parolaio che scende in campo solo se i malvagi di turno sono gli Americani. Vengono alla mente le parole di Mitterand: “I pacifisti sono all’ovest, i missili ad est“. Fa parte di quella folta legione di intellettuali dei più diversi paesi, nella stragrande maggioranza denigratori del sistema capitalistico, già pellegrini a Mosca, nostalgici dell’impero sovietico, che fanno venire alla mente lo slogan: “Non si può essere di sinistra se non si è antiamericani“. In un contesto diverso, riferendosi a un libro Teoria della classe agiata di Thorsten Weblen, Benedetto Croce, napoletano sapiente, storico senza aggettivi, scriveva: “Ma il lettore si diverta a scorrrere il grosso volume, se resiste al gioco insulso che qui si é voluto brevemente esemplificare, non per altro che per dimostrare che contro questo libro non é proprio ‘necessaria la congiura del silenzio’, la quale se mai, sarebbe pietosa verso l’autore“.