Il genocidio delle donne nell’induismo di Sita Agarwal (traduzione italiana)
di Milena Rampoldi, ProMosaik.
Vorrei dedicare questa traduzione del combattivo libro di Sita Agarwal sul genocidio delle donne nell’induismo a tutte le donne di ogni cultura e religione: alle vittime dell’oppressione, da una parte, e a coloro che lottano per i loro diritti, dall’altra. In ogni cultura il femminismo si sviluppa come forma di lotta per i diritti femminili a tutti i livelli, personale, sessuale, familiare, sociale, politico ed economico. Il femminismo, per me personalmente, rappresenta un movimento al plurale, con una declinazione culturale e religiosa molto diversificata e che lotta per ideali diversi, i quali però si ritrovano nel principio di base secondo cui la donna deve riconquistare la propria dignità e autodeterminazione, il proprio valore per sé stessa e per il proprio ambiente religioso, culturale, politico, economico e sociale, in quanto il genere femminile rappresenta il pilastro di ogni gruppo umano.
L’aspetto femminile, in senso filosofico, per me equivale all’aspetto non-violento, vitale, positivo ed estetico che si ritrova in ognuno di noi. Ma si eleva anche a forma di lotta socio-politica dinamica e creativa in un mondo caratterizzato dalle violazioni dei diritti basilari delle donne.
Un Paese in cui “la sofferenza del genere femminile”, come la chiama l’autrice, la femminista indiana Sita Agarwal, acquista forme particolarmente oppressive e situazioni prive di qualsiasi prospettiva all’insegna di autodeterminazione e dignità, è la società tradizionale induista.
Sita ha perso una sorella per una ragione futile come quella della dote, che in India miete numerose vittime. Le forme peggiori di tale oppressione, ovvero del genocidio commesso dall’induismo tradizionale, riguardano l’infanticidio femminile, seguito dall’omicidio legato alla dote e dalla violenza generalizzata contro le donne indiane, in particolare delle vedove.
La religione vedica e del visnuismo, che insieme vengono chiamate brahmanesimo o induismo “astika”, favoriscono questo genocidio femminile. L’autrice ci mostra come siano proprio le fonti di questa tradizione religiosa a imporre questo genocidio contro il genere femminile.
Per Sita, la lotta femminista significa l’attacco contro la religione misogina dell’induismo. Parla infatti di un vero e proprio olocausto femminile in India, inflitto dai bramini alle donne. L’unica via d’uscita la vede nell’unione tra il femminismo indiano e le altre forme di femminismo, tra cui quello comunista, islamico e cristiano, per salvare la donna indiana dalla sua situazione abietta.
Nel primo capitolo l’autrice ci parla dell’annientamento vedico delle bambine, ovvero dell’infanticidio femminile. Le figlie femmine indesiderate vanno eliminate a favore di una progenie maschile.
Cita un versetto fondamentale, Atharva Veda 6.2.3, che recita:
“Lasciate che una femmina nasca da qualche altra parte; qui, fate nascere un figlio maschio”.
Nel nome di questa tradizione si giustifica l’infanticidio femminile che colpisce milioni di bambine. Le donne vanno liberate da questa credenza che le schiavizza e uccide le loro figlie: questa la tesi dell’autrice, che descrive la storia di quest’infanticidio femminile e le forme che assume.
Alle ragazze che hanno la “fortuna” di poter nascere viene imposto il matrimonio infantile, anch’esso giustificato e promosso dalla tradizione vedica, che dice che la donna dovrebbe avere un terzo dell’età dell’uomo.
Nel secondo capitolo, l’autrice tratta poi delle donne sposate, sterminate anch’esse con riti come sati e jauhar. La sposa viene bruciata se la famiglia non riesce a pagare la dote. Se sopravvive al periodo della dote, rimane il rogo della moglie per i motivi più futili, lo jauhar, una pratica del rogo di massa di tutte le moglie e figlie affinché non cadano in mani nemiche, il rogo delle streghe e delle vedove e ulteriori pratiche brutali descritte nel capitolo 3, tra cui cannibalismo, omicidi e trattamento delle donne lesbiche.
Nel capitolo successivo si descrivono le restrizioni nei confronti delle donne induiste, mantenute senza alcun diritto alla proprietà e all’educazione, costrette a pagare somme ingenti per potersi sposare. La violenza sulle donne acquista anche forme di oppressione psicologica che distruggono del tutto la loro fiducia in sé stesse.
Finché la dote viene considerata “divina”, afferma l’autrice, non ci sarà alcuna speranza per le vittime di tutto quest’insieme di forme di oppressione delle donne nel mondo induista.
Il divieto a divorziare e a risposarsi è un altro aspetto di questo mondo misogino perpetuato dalle fonti della religione induista. Castità e povertà totale o rogo (preferibile per accedere al Paradiso degli Dei) sono le uniche alternative per una vedova, secondo i bramini: ecco la triste realtà della donna induista alla fine della sua esistenza.
Sita accusa il fondamentalismo induista odierno di far rivivere usanze misogine di ogni tipo, praticate da secoli nella tradizione induista.
Lottare contro gli stessi dei che impongono queste pratiche brutali sembra un’utopia. Ma smette di esserlo non appena il femminismo induista si allea con i movimenti femministi delle altre religioni e ideologie. A mio avviso, in questo contesto si può lavorare soprattutto sull’Islam e sul marxismo, che affermano entrambi un egalitarismo radicale che non ha nulla a che vedere con il giustificazionismo femminicida della tradizione vedica.
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