I ragazzi di zinco. Di Svetlana Aleksievic
“Quando tacciono le armi, la guerra ricomincia da capo. Bisogna ripensarla, riviverla. E fa ancora più paura”.
Così, all’inizio degli anni Novanta, la giornalista bielorussa Aleksievic Svetlana, premio Nobel della Letteratura, raccoglie ne I ragazzi di zinco (pubblicato in Italia nel 2003 da Edizioni e/o, 316 pp., 11.00 €) i sospiri tristi e disperati di chi per dieci anni ha visto con i propri occhi o con quelli di figli e mariti, la guerra in Afghanistan, che ha inizio con l’invasione sovietica nel 1979 e termina dieci anni dopo.
L’occupazione dell’Armata Rossa e lo scontro perituro con i mujaheddin causano la morte di tanti: giovani soldati, tenenti, infermiere, medici. Tutti sono dentro quella vasca nera che solo all’inizio sembra raccogliere sangue versato per una causa giusta: aiutare l’Afghanistan, paese amico, nella sua guerra civile tra filo-sovietici e non. In molti sono chiamati alla guerra, ma a molti viene mentito sulla destinazione. Molti invece, a causa di una propaganda nazionalistica estenuante, sentono bollire nelle vene il dovere di servire la Patria. Si parte lontano, ma il fascino e l’eccitazione per un’impresa importante in terra straniera svaniranno una volta messo piede in Afghanistan.
Si ammazza e si viene ammazzati come soldatini in un gioco di guerra. Si piange forse troppo in silenzio e in silenzio si fanno i conti con un passato che non trova giustificazioni a tanto orrore.
L’opera è un documentario delle emozioni, delle esperienze più umane. Né nomi politici, né riferimenti da manuali. La scrittrice parla con gli occhi e sa ascoltare con completa dedizione chi le sta davanti. Ogni racconto è in prima persona ed è mille ricordi: ricordi che sono diventati sogni o incubi.
La giornalista è autentica quando scrive; scrive, forse, di sensazioni e fatti risaputi, ma leggerli prende il cuore e lo strappa.
Di seguito un breve passo tratto dal racconto di una madre:
“Dovevo convincermi io stessa che mio figlio aveva potuto davvero ammazzare un uomo. Li ho interrogati a lungo e ho capito: sì, aveva potuto. La questione della morte, dell’uccidere un uomo non suscitava in loro particolari sentimenti, di quelli che si incontrano abitualmente in un uomo normale, che non ha mai visto il sangue. Parlavano dell’Afghanistan come di un lavoro in cui si doveva ammazzare. In seguito mi è capitato di incontrare dei ragazzi anche loro reduci dall’Afghanistan i quali erano andati in Armenia dopo il terremoto, con le squadre di soccorso. Volevo sapere se avevano avuto paura, che cosa provavano alla vista della morte, questa per me era ormai diventata una specie di idea fissa. No, non avevano paura di niente e anche il sentimento della pietà si era affievolito. Membra strappate… Corpi schiacciati… Crani, ossa… Intere scolaresche sepolte dai crolli… Bambini seduti ai loro banchi a un tratto finiti sotto terra. Ma quelli ricordavano e raccontavano altre cose… Di come avevano riportato alla luce delle cantine ben fornite, il cognac e il vino pregiato che avevano bevuto… Scherzavano: ci vorrebbe un altro buon scrollone, però in un paese caldo, dove cresce la vite… Le pare che siano sani di mente? Che siano psicologicamente normali?”
Parti con la divisa e cominci a perdere te stesso. Il terrore modifica e uccide, comunque, ovunque.
Aleksievic Svetlana rende eterna la memoria nei racconti di donne e bambini, di donne-soldato, di quegli eroi che solo il destino non ha reso martiri; ha percorso l’Urss per raccontare le tragedie individuali senza filtri, tanto da essere accusata di aver riportato racconti falsi e dover subire un processo per diffamazione nel 1992.
Si ricordano, inoltre, il suo primo libro La guerra non ha un volto di donna, Preghiera per Chernobyl sulle vittime della tragedia nucleare, e l’ultimo Tempo di seconda mano. La vita in Russia dopo il crollo del comunismo.
Edito da: Edizioni E/O