Democrazia rappresentativa. Sovranità e controllo dei poteri, Nadia Urbinati

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Oggetto del libro è la questione della rappresentanza in rapporto al concetto moderno di sovranità popolare. Nadia Urbinati si propone di confutare la tesi dell’incompatibilità tra democrazia e rappresentanza, sostenuta con ragioni e scopi diversi da Montesquieu e Rousseau.
La trattazione si inserisce in un indirizzo di ricerca sulla rappresentanza che, facendo riferimento ai dibattiti sulla “democrazia deliberativa” ispirati da autori quali Habermas o Elster, la indaga “dall’interno” per comprendere in che modo “la rappresentanza si rapporta all’insieme delle pratiche della partecipazione” (p. X). 
Le tesi sostenute nel libro sono: 1) democrazia e rappresentatività non sono in contraddizione; 2) la democrazia rappresentativa non è una mera alternativa pragmatica alla democrazia diretta, ormai impossibile per i moderni; 3) la rappresentanza è intrinsecamente e necessariamente correlata alla partecipazione e all’espressione informale della volontà popolare.
Secondo Rousseau, democrazia e rappresentanza sono incompatibili perché “la sovranità non può essere rappresentata” (p. 3). Il popolo sovrano è una sostanza, il cui attributo essenziale è la volontà che si esplica nell’unità spazio-temporale dell’assemblea. I deputati del popolo non sono i suoi rappresentanti, che decidano al suo posto, ma suoi commissari con mandato imperativo. Rousseau propone una “politica delegata con ratifica diretta (ma silenziosa)” (p. 4) da parte del popolo, non una “polis partecipativa”, che formuli proposte di legge e decida. Ne risulta “una sovranità essenzialmente formalistica e una forma minimalista di partecipazione (del sovrano nei luoghi di decisione)” (p. 20). 
Nonostante questa visione riduttiva della partecipazione democratica, secondo la Urbinati Rousseau ha avuto  il merito di mettere in luce come esigenze pragmatiche e strumentali non siano sufficienti per legittimare la rappresentanza.
Kant contribuirà alla soluzione del problema della legittimità democratica della rappresentanza. Per Kant la rappresentanza è un noumeno. Ai rappresentanti spetta la facoltà del giudizio, la cui forma è quella del “come se”: il rappresentante giudica dal punto di vista dell’opinione pubblica generale (non del proprio interesse di singolo o di parte), sorta di “nuova sfera pubblica” “situata tra il sé morale e le azioni regolate dalla legge civile”- “sfera pubblica di conversazione comune”, luogo della “più creativa delle facoltà intellettuali, poiché l’unica ad innescare tra il teoretico e il valutativo […] un dialogo e una tensione continui” (p. 83). Non solo la volontà, ma anche il giudizio sono “luoghi della sovranità”, purché questa non sia intesa come temporalmente intermittente (esplicantesi solo nel qui e ora dell’assemblea) e “silenziosa”, ma ininterrotta e dialogica.
Il rappresentante fa uso della facoltà dell’immaginazione, che media tra intelletto e sensibilità: essa è la fonte di giudizi, non basati su regole, in cui all’oggetto sensibile è conferito un significato ideale. Grazie all’immaginazione il rappresentante vede se stesso come se fosse la totalità dei rappresentati, o entra in un rapporto di empatia con loro. In quanto fa uso di questa facoltà, egli può rivendicare ai propri giudizi una validità generale. L’immaginazione è, insomma, la condizione di possibilità del “contratto sociale” in quanto “esperimento di pensiero ipotetico che il legislatore può compiere, e di fatto deve compiere, per testare la ‘giustezza’ di una proposta di legge” (p. 92).  
A differenza di quel che pensano i teorici della democrazia deliberativa, come Habermas, retorica e ideologia non possono essere espunti dalla deliberazione: se ideologia è “l’uso di credenze e valori volto a legittimare il comportamento politico” (p. 87), in essa si esplica la fondamentale facoltà politica dell’immaginazione, in cui fatti e valori sono intrecciati.
Il giudizio politico dei rappresentanti ha comunque una pretesa di imparzialità. È libero, in quanto non vincolato da un mandato imperativo, e nello stesso tempo dipende politicamente dai rappresentati, da cui riceve un “mandato politico”. È universale, nel senso che chi lo formula lo fa in quanto rappresentante dell’intera nazione, chiamata a obbedire alle leggi, anche se eletto solo dalla parte di essa con cui intrattiene rapporti “di simpatia ideologica e di comunicazione” (p. 106). 
La democrazia rappresentativa così intesa è l’antitesi della democrazia plebiscitaria e populistica: la rappresentanza è un processo di unificazione e non un atto di unità. È espressione di un sovrano non inteso come “entità collettiva” già data, ma visto come “processo di unificazione intrinsecamente pluralista” (p. 107). La sovranità non è solo atto di volontà, ma un processo dialettico, in cui maggioranza e minoranza sanno di potersi continuamente scambiare le parti. 
Le espressioni governo rappresentativo e democrazia rappresentativa, coniate dai rivoluzionari americani e francesi, non sono sinonimi. La teoria del governo rappresentativo è stata sviluppata da Sieyès: tutti i rapporti umani, privati o pubblici, sono rapporti di “rappresentanza”, in quanto servizi forniti in  cambio di un compenso. Questa logica, che ha le sue radici nel libero mercato, è estesa alla sfera politica. I rappresentanti politici sono professionisti competenti e attivi che godono della fiducia dei molti politicamente passivi ma socio-economicamente attivi, e operano per il loro bene. La rappresentanza non è un espediente pragmatico sostitutivo della partecipazione diretta negli Stati di grandi dimensioni, ma la creazione di un nuovo settore di competenza per il vantaggio  di tutti. È condizione di libertà dei rappresentati, in quanto li libera dall’impegno politico diretto: la libertà non è indipendenza, ma interdipendenza.         
La nazione è la prima forma di associazione tra gli individui, dotati di diritti che determinano obblighi reciproci ed escludono rapporti di dominio. Gli individui, in quanto tenuti ad obbedire alle leggi, sono però passivi. Diventano attivi in quanto cittadini elettori: i diritti politici, funzioni dell’organizzazione dello Stato, non sono distribuiti in modo eguale, ma in base alle competenze e agli interessi. I cittadini attivi, in tale modo, rappresentano anche quelli passivi. Sieyès conciliava così eguaglianza giuridica e diseguaglianza (meritocratica) politica.   
Tra rappresentanti e rappresentati non esiste un rapporto di obbligo giuridico (come nel caso di un mandato imperativo), ma di obbligo politico. L’elettore è legato all’eletto da un rapporto “invisibile” di fiducia nei suoi confronti, basato sulle sue virtù civiche. La storia successiva dimostrerà, però, che le elezioni sono – come vide Tocqueville –  un meccanismo di selezione delle competenze inefficace, mettendo così in dubbio la giustificazione del governo rappresentativo data da Sieyès.
Paine deduce la forma rappresentativa dalla sovranità del popolo, non concepito come una sostanza spazio-temporalmente identificata e dotata di volontà, ma come lavoro complesso e costante di unificazione delle opinioni politiche per la formulazione di decisioni che hanno di mira l’interesse generale e sono raggiunte attraverso procedure concordate e condivise: il governo rappresentativo può così essere pensato come il solo governo democratico capace di estendersi sia nello spazio (quindi adatto agli Stati di grandi dimensioni) sia nel tempo (quindi capace di durare), in quanto è il solo che sia in grado di rappresentare le differenze sociali e di gestirne i conflitti, unendo i diversi.           
Anche Condorcet sostiene l’ideale della democrazia rappresentativa: non si tratta di porre termine alla rivoluzione delegando la politica ai soli rappresentanti, ma di legalizzarla, creando istituzioni che rendano possibile la partecipazione del popolo alla deliberazione collettiva. L’istituzionalizzazione trasforma la partecipazione “da una virtù appassionata ed emotiva in una virtù discorsiva e basata sul giudizio” (p. 175). 
La Repubblica si fonda sui diritti dei cittadini, prima di tutto quello di sovranità, che include vari diritti, tra cui quelli di approvare la Costituzione e le sue periodiche revisioni e ratifiche, di eleggere ed essere eletti, di proporre, discutere o censurare leggi. Fondamentale per diffondere le competenze necessarie tra i cittadini sono la stampa, le associazioni e le discussioni pubbliche informali. Le procedure formali della deliberazione sono concepite in modo da neutralizzare la mancanza di competenza o le passioni perturbatrici e minimizzare le probabilità di errore.
La democrazia rappresentativa è vista come antidoto al dispotismo dei tiranni, ma anche a quello delle masse: anche le assemblee rappresentative possono divenire dispotiche quando cessano di rappresentare i cittadini nel loro insieme. Condorcet mise a punto dispositivi in grado di controllare la funzione dell’organo rappresentativo all’interno dello stesso processo deliberativo. 
Condorcet si differenzia così da Rousseau: la partecipazione non è tanto espressione di volontà, quanto lavoro di interpretazione e di giudizio. La deliberazione politica non è un sillogismo, in quanto i valori su cui opera non sono verità necessarie, ma probabilità. Le procedure adottate devono minimizzare le probabilità di errore e massimizzare quelle di raggiungere la verità. 
La strategia per contenere i pericoli del dispotismo consiste nella moltiplicazione dei luoghi di dibattito e di controllo, formali e informali, e in un complesso sistema di dilazioni temporali tra proposte e decisioni. La deliberazione è “un iter circolare che inizia fuori dello Stato, raggiunge le istituzioni politiche e si conclude temporaneamente con il voto dei rappresentanti, ritornando poi alla società per ricominciare daccapo il suo cammino” (p. 205). Essa “inizia con molti io per poi dar vita gradualmente a qualche noi concludendosi infine con un noi di approvazione” (pp. 206-7).
La teoria della deliberazione di Condorcet dà un contributo importante all’idea di cooperazione cognitiva: la deliberazione deve concludersi entro un tempo definito; non è possibile pertanto che ciascuno acquisisca una conoscenza completa delle questioni dibattute; è sufficiente che informazioni e competenze siano distribuite tra i soggetti e che questi siano dotati di capacità di interazione:  in presenza di procedure razionali, la divisione del lavoro cognitivo è condizione di successo della deliberazione collettiva. In sede locale le assemblee primarie devono contribuire alla deliberazione politica nazionale (compito questo che a partire dalla fine del secolo successivo sarà svolto dai partiti di massa radicati sul territorio). 
Motivo di interesse del libro è la riproposta del modello condorcettiano, con il quale vengono fin dall’inizio confrontate le varie teorie della rappresentanza. L’autrice valorizza di Condorcet le idee politiche della maturità piuttosto che l’analisi matematica delle elezioni. Questa dissezione dell’opera del nostro non giova alla comprensione della sua proposta: in gioco nella democrazia, si è detto, non è tanto l’autorizzazione, quanto la deliberazione; non sono scelte persone, ma assegnati valori di verità a proposizioni, in un processo non sillogistico, ma probabilistico. Il problema è quello di massimizzare le probabilità di accettare proposizioni vere e minimizzare quelle di errore. Ora, una delle condizioni che permettono di raggiungere lo scopo è la maggior distribuzione dei lumi: l’istruzione pubblica (campo in cui Condorcet avanzò una delle sue proposte più innovative, contrapposta a quelle giacobine ispirate a Rousseau) è quindi uno dei fondamenti della democrazia. Dalla diffusione dei lumi scaturisce, tra l’altro, quell’ethos che permette di normalizzare la rivoluzione, sostituendo la calma del giudizio alla tempesta delle passioni. Infine, il sistema dell’istruzione pubblica, sorta di potere autonomo, culmina in un’ulteriore istanza di controllo e di proposta, che travalica i confini nazionali, la Società delle scienze.