Alle origini del linguaggio umano di Francesco Ferretti

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L’ultimo libro di Ferretti ha il sapore del viaggio clandestino attraverso uno dei temi più dibattuti della filosofia contemporanea. A distanza di centoquarantaquattro anni, due mesi e dodici giorni dal divieto della Société de Linguistique de Paris di presentare relazioni sul problema dell’origine del linguaggio umano, l’autore presenta una feconda tesi sul possibile sviluppo della capacità comunicativa nella specie umana.
Il viaggio di Ferretti si presenta da subito come una battaglia contro i fautori dell’ideologia della diversità della specie umana che, da Mivart a Descartes, ha generato non poche incomprensioni. Gli attacchi di Ferretti sono ben protetti dallo scudo darwiniano (la teoria dell’evoluzione nella sua forma classica), e della tesi del linguaggio come adattamento biologico, elaborata durante le discussioni con il suo gruppo di ricerca. Così egli controbatte il programma generativista di N. Chomsky, le spiegazioni  dei generativisti (Bloom e Pinker), quelle dei neoculturalisti, e di Corballis: sono tutti ganci appesi al cielo, dice Ferretti, riprendendo Dennett. Nessuno di questi autori ha saputo resistere al fascino di considerare l’uomo – benché soggetto agli stessi meccanismi che investono tutto il regno animale – possessore di un tratto qualitativamente distintivo. Ferretti accogliendo il monito darwiniano di considerare “l’uomo come animale tra gli altri animali” intraprende invece la via di una spiegazione diversa. 
Il primo a essere esaminato è Noam Chomsky, il cui errore  è quello di considerare il linguaggio come una facoltà innata, senza riconoscerne la paternità alla selezione naturale. Egli non definisce il linguaggio un adattamento biologico ma un esattamento. L’esattamento è un concetto introdotto da due paleontologi, Gould e Vrba, in contrapposizione  all’adattamento. Se l’adattamento consiste nell’elaborazione di strutture che permettono all’organismo di sopravvivere, o sopravvivere meglio, attraverso un lavorio lento, costante e graduale, l’esattamento è l’impiego da parte dell’organismo di strutture già esistenti per finalità diverse da quelle che le hanno generate. Secondo Chomsky, dunque, il linguaggio non è il risultato di modifiche lente e graduali ma l’effetto immediato di una cooptazione funzionale. Il padre del generativismo è così costretto ad ammettere come il “problema di Cartesio” – la spiegazione della capacità di parlare in modo appropriato – sia una sorta di mistero. 
Ferretti sviluppa invece una tesi che permette di ovviare a questi paradossi o richiami all’occulto. Egli considera lo sviluppo del linguaggio come lo sforzo di equilibrio che ogni organismo adotta per sopravvivere nel proprio ambiente e che in ambito linguistico è possibile sperimentare nella vita quotidiana. Ognuno di noi, infatti, anche nel più banale dei dialoghi, mette in moto una serie di operazioni: comprensione delle aspettative, analisi e approssimazione del livello di competenze dell’interlocutore, calibrazione del discorso, anticipazione della finalità della comunicazione e ricezione di quanto ascoltato. Tali operazioni risultano finalizzate al successo della comunicazione e altro non sono che uno sforzo diretto a mantenere l’equilibrio tra i comunicatori. Lo sforzo di equilibrio nella comunicazione, ipotizza Ferretti, è consentito dallo STRP, il sistema triadico di proiezione e radicamento, formato dall’intelligenza ecologica, quella sociale e quella temporale. Lo STRP consente all’uomo di muoversi flessibilmente nel tempo, nello spazio e nella società. Questa ipotesi trova conferma empirica nel deficitario linguaggio dei soggetti affetti da autismo, schizofrenia e sindrome di Williams (da ricondurre alle compromissioni che presentano rispettivamente nell’intelligenza sociale, temporale ed ecologica), e supporto teorico nella teoria della pertinenza di Sperber e Wilson, secondo cui la comunicazione è una sorta di avanzamento per indizi. 
La tesi di Ferretti, in sintesi, è che il linguaggio non si dà tutto in una volta ma è il prodotto di un lento lavorio comunicativo che si è gradualmente emancipato dall’iconicità. Grazie al sistema triadico di proiezione e orientamento, infatti, gli interlocutori hanno ancorato le parole agli indizi comunicativi del contesto fisico (spaziale e temporale) e sociale, divenendo capaci di mandare avanti la comunicazione anche in casi in cui il corrispettivo iconico fosse lentamente abbandonato. Ecco quindi che anche Corballis cade sconfitto. Il suo destino segnato dall’idea che il passaggio dal sistema iconico a quello simbolico fosse il momento della convenzionalizzazione. Si chiede retoricamente Ferretti: “com’è possibile mettersi d’accordo nelle fasi iniziali della costruzione di un codice condiviso quando non si ha ancora un codice condiviso con cui accordarsi?” (p. 143).
L’ipotesi di un coinvolgimento del sistema triadico di radicamento e proiezione nello sviluppo del linguaggio permette di interpretare la capacità linguistica come una conquista ottenuta progressivamente nel corso dell’ominazione, con miglioranti lenti e graduali. Quindi piuttosto che invocare misteri o appendere ganci al cielo, come farebbero anche i neocultarlisti, da Deacon a Tattersall (i quali elaborano una spiegazione tautologica secondo cui il linguaggio comparirebbe con la nascita del simbolo), Ferretti formula un’ipotesi su come realmente possono essere andate le cose. “Ammettiamo una situazione comunicativa di base in cui i segnanti si comprendano facendo leva sulle proprietà iconiche e motivate dei simboli. […] Consideriamo ora l’evenienza in cui ai fini di una comunicazione più efficace un emittente durante la conversazione utilizzi un nuovo segno sincretico per «casa» il cui carattere essenziale è la perdita dell’iconicità originaria.[…] L’unica possibilità di sopravvivenza del segno è che la comunicazione non conosca intoppi e continui ad andare avanti” (pp. 143-144).
Il vincitore di questa lotta non è né il riesumato Darwin, né Ferretti; il vincitore è l’uomo, o meglio, la specie umana, il cui sforzo adattivo ha imposto la direzione agli adattamenti biologici governati dalla selezione naturale. Nel terzo capitolo, infatti, in cui è condotta l’analisi della teoria evoluzionista, è riconosciuto che il linguaggio, anche se sorto attraverso la cooptazione funzionale di strutture esistenti, si è assestato come adattamento (secondario) biologico a causa della selezione organica, secondo cui modificazioni fenotipiche vantaggiose salvaguardano la sopravvivenza dell’organismo fino al momento in cui sopraggiungono modificazioni genetiche coincidenti, che vengono cooptate dalla selezione naturale per adattamenti convenienti. Considerato tutto questo Ferretti conclude il suo viaggio con un’ipotesi coevoluzionista secondo la quale anche l’evoluzione del linguaggio avrebbe indotto un’evoluzione del cervello, illustrata attraverso la distinzione sperberiana tra modulo metacognitivo e modulo metacomunicativo. Egli riesce così a dimostrare la sua ipotesi e ad assestare un altro e ultimo colpo al paradigma della anomalia umana. Nel capoverso che anticipa le conclusioni leggiamo che “il fatto che esistano dispositivi cognitivi adattati al linguaggio (il modulo metacomunicativo) mostra che l’evoluzione della comunicazione verbale non segue soltanto uno sviluppo di tipo culturale […] Un risultato del genere è in effetti sufficiente a mettere in crisi il modello dell’anomalia evolutiva dell’essere umano” (p. 160-161 ).
A lettura ultimata non si può non riconoscere che la Société Linguistique de Paris, con il divieto del 1866, aveva eliminato la causa di molte grane. Ogni volta che si affronta il problema sull’origine del linguaggio si dibatte sulla continuità evolutiva tra primati umani e non umani e la questione si riduce a un’annosa domanda che però non trova mai risposta: perché, mentre io leggo al computer una recensione di un libro scritto da un professore universitario sulla mia capacità linguistica, le scimmie continuano a non parlare? Ferretti risponde confermando la sua ipotesi. Nell’ultimo capitolo cita il successo degli esperimenti dei Gardner con Washoe sull’insegnamento della lingua dei segni alle scimmie come momento fondamentale per il passaggio dalla comunicazione gestuale al linguaggio vero e proprio. Nessun miracolo quindi, e nessun pericoloso gancio fluttuante nel cielo, solo il semplice addestramento alla rappresentazione, che poi consentirà ai primati non umani di elaborare il proprio mondo simbolico.
A distanza di centocinquantuno anni dalla pubblicazione dell’opera di Darwin, Ferretti ha dimostrato che c’è ancora molto da lavorare per restituire una visione naturalistica dell’essere umano.